30 aprile 2003




Senza musica non riesco a campare. E' più forte di qualunque cosa. Scivola. le cose calde che scivolano sono terribili, non se ne fa a meno.
la musica scivola. La voce di Mick Hucknall mi scivola addosso da troppo tempo per non essere contento di sentirla di nuovo. Di nuovo com'era.
La canzone che sto sentendo adesso è vecchia come il cucco. Ma la sua vocee è giovane. Come le parole.
Non c'è bisogno di dire altro. Si legge il testo e bona lè. Voilà.

My love, I'll never find the words my love, to tell you how I feel my love. Mere words, could not explain. Precious love, You held my life within your hands, created everything I am, tought me how to live again. Only you, came when I needed a friend, believed in me through thick and thin, this song is for you, filled with graditude and love... God bless you, you make me feel brand new, for God bless me with you, you make me feel brand new, I sing this song 'cause you, make me feel brand new. My love, When ever I was insecure, you built me up and made me sure, you gave, my pride, back to me. Precious friend, with you I'll always have a friend, your someone who I can depend, to walk a path that sometimes bends. Without you, Life has no meaning or rhyme, like notes to a song out of time, how can I repay, you'll find heaven,faith and me...God bless you, you make me feel brand new, for God bless me with you, you make me feel brand new, I sing this song for you.

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Le mie giornate sono strane. Ultimamente ho scoperto che il mio commercialista ha fatto una cagata, ma avendola fatta fare a me il chilo da sbirsare è a carico del sottoscritto. Poi ho anche scoperto che certa gente che credevo fossero dei cioccapiatti - che da queste parte vuol dire più o meno parolai - invece sono stati di parola. E trattandosi di vil danaro non può che farmi piacere.
E ho scoperto anche che uno dei momenti che preferisco delle mie giornate è quel momento fra le dieci e le undici di sera quando mi metto a sedere davanti al Mac e improvviso quelle quattro righe che spedisco per mail. Una volta, in tutti i film d'avventura che si rispettino, c'era il messaggio nella bottiglia. Una bottiglia con la mappa di un tesoro, magari. Tutte le sere scrivo il mio messaggio nella bottiglia. Che un messaggio nella bottiglia ha un destinatario, ma non è come una raccomandata. CHi lo riceve mica firma.
Basta che legga. A volte c'è una mappa che porta da qualche parte, a volte è una finestra che si apre su un mondo, che si tratti di pensieri o dello specchio di una storia.
E non so perchè, ma so che tutte quelle bottiglie che metto in mare a quell'ora, quando chissà perchè la mente si mette in moto e sforna, arrivano a destinazione. C'è una mano che le apre, sfila lentamente la pergamena gialla, la srotola come fosse un banditore e la legge.
E' per questo che esistono i messaggi nella bottiglia. Perchè chi li riceve li legga. Perchè possa credere che quella mappa porta a un tesoro.
Che forse bisognerà scavare per trovarlo. Ma che sepolto sotto la terra, nascosto negli alberi, mescolato agli alberi, nascosto in una serie di trappole, l'oro c'è.
E a volte può anche capitare che quel messaggio chiuso nel vetro e raccolto dai pensieri sia la mappa che porta da qualche parte.
Da qualche parte dentro di te che conosci bene. Che conosci solo tu, forse. E che leggendo quel messaggio scopri che in fondo non è così difficile da vedere.
Basta seguire le tracce che lasci nel mondo.
Mi piace disegnare quelle mappe. Mi piace perchè è un gioco strano e folle. E io sono strano e folle.
Lo sono i miei pensieri e le mie parole e le mie mani nelle notti calde d'estate.
E in fondo, bella penna, di una forma strana di follia sei presa bene anche tu. Altro che sars...

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Dormi che i sogni sono come la Luisa, arrivano presto e finiscono presto.
E che la notte è lunga, ma dura troppo poco quando uno gubbia di gusto.
E che ci sono cose nella notte che si muovono fra i pensieri e li fanno più fitti, come il pelo dei mici.
E che qui a guardare le tue mani che ti accarezzano la notte ci sono io.
Voglio guardarti dormire stanotte.
E intrugolarmi nei tuoi sogni come un clandestino.

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Un giorno come un altro.
SB inaugura la campagna elettorale del centrodestra. Con questa opposzione che offende e mistifica non si puà dialogare, dice e in anteprima mostra lo slogna dei manifesti. Contro una sinistra pericolosa per la democrazia.
In Iraq un gruppo di soldati americani spara sulla folla. Qualcuno ha sparato a noi. Pare fosse lo stesso che aveva sparato al blindato dalla terrazza del Palestine. Si cerca alacremente Fantomas. Pare che per riuscire a fuggire abbia tentato di sedurre il generale Garner travestito da moglie di Saddam. Ma Garner non c'è cascato. Sei Maria de Filippi gli ha detto, convinto di smascherarlo. Si sa gli americani vedono lungo.
Altri casi di SARS in Italia. In Cina la situazione è sotto controllo. L'unico cruccio del governo di laggiù è essere stato costretto a divulgare nel mondo il loro efficientissimo metodo di controllo demografico.
Una giornata come le altre, dappertutto. Dove la verità e la giustizia e il bene trionfano. Come sempre.
Anzi, no. Non è vero. Non è così.
Hanno condannato Previti.

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29 aprile 2003




Ci son dei giorni che mi chiedo se il tennis mi manca.
Non tocco una racchetta da quasi un anno. Era caldo, era tabellone nazionale di serie C. Poi più niente.
E così delle volte mi chiedo se non mi manca. Ho passato 15 anni della mia vita tenendo quella racchetta in mano per tre ore tutti i giorni. Cercando di capire, di pensare, di fare, di non subire e, a volte, soprattutto di stare in piedi. E ho conosciuto molta gente che non mi piace, in mezzo a quelle quattro righe, molta gente che non rivedo e che non mi manca, molti personaggi di cui non invidio la vita, i pensieri, il modo di essere.
Direi praticamente tutti tranne uno. E te che leggi sai che sto parlando di te, cretino. Che se una volta non è che ci sopportassimo molto, beh, forse è perché già allora eravamo due begli idioti. E poi perché non ci sopportavamo? Te te lo ricordi?
Però quel mondo non mi piace, anche se ci sono luci e odori e momenti della giornata che inevitabilmente vanno a finire lì. La luce del mattino presto, in primavera e in estate è quella delle trasferte, il bagagliaio pieno, le corse dall’accordatore, le lotte contro le strade di provincia e il loro profumo di grano o di terra, talvolta l’orrenda puzza del concime. E poi il sudore che ti cola sulla pelle e che ti fa sentire bene. Puzzolente, probabilmente, ma bene. E il doversi difendere sempre da tutti, parlare poco e con poca gente, che ci mettono un secondo a cacciartelo nel culo.
Ma anche i viaggi di notte, tornando a casa stanco, con la luce dell’autostrada morbida e sempre uguale. Con i baristi dei circoli che ti salutano da un anno all’altro e le mamme che portano i bimbi a vederti giocare. Quello, forse, mi manca.
Non mi mancano i soci del mio circolo, di quello mio storico e unico a cui penso di dovere, ma che sicuramente deve molto a me e che mi ha usato finchè ha potuto. Come non mi mancano le invidie da quattro soldi che girano in quei posti e il dover sembrare sempre amico di tutti mentre tutti, ma proprio tutti, anche chi non te lo aspetteresti mai, ti parla dietro appena volti l’angolo.
E nessuno che si accorgesse che mi cagavo addosso. Che il modo di giocare anche presuntuoso e l’atteggiamento in campo, di quelllo che non sta zitto, che fa il suo show, che rompe i coglioni con la sua bandana in testa e la voglia di far sentire quello che vale, beh, quel modo di essere lì era solo lo specchio di una gran paura.
Sì, forse ci vuole coraggio a battere e scendere, forse sì. Ma il punto dura di meno. E si impara a convivere con la paura. Con i dover combattere la pauyra, con il sentirti solo in mezzo al campo e poter anche bestemmiare Dio, ma sempre solo, sempre lì, tu e l’altro e quella fottuta pallina e quel maledetto campo che mi ha insegnato a vivere, ma che mi ha tolto tanto e a cui ho permesso di togliermi tanto.
Ho le racchette nel bagagliaio da un anno. Un giorno mi verrà voglia di tirarle fuori e di scoprire che so ancora usarle.
Ma non sarà mai più lo stesso.
Ho già permesso allo sport e a come lo sport mi ha reso di fare troppi danni nella mia vita.
A me e alle persone che amo.
Adesso basta.
Adesso non glielo permetto più.

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Prima l'ha passata la radio. E' una canzone con un profumo. Di quelle che ti sembra di avere sotto le mani qualcosa da accarezzare.
A volte capita di scrivere qualcosa di perfetto. Di ascoltarlo. Di incazzarsi un po' perchè non l'hai scritta tu, che in fondo sembra così semplice, così immediata.
Me ne sbatto se è melensa. La dedica è scontata.

Chissà chissà domani su che cosa metteremo le mani se si potrà contare ancora le onde del mare e alzare la testa non esser così seria, rimani i russi, i russi gli americani no lacrime non fermarti fino a domani sarà stato forse un tuono non mi meraviglio e' una notte di fuoco dove sono le tue mani nascerà e non avrà paura nostro figlio e chissà come sarà lui domani su quali strade camminerà cosa avrà nelle sue mani.. le sue mani si muoverà e potrà volare nuoterà su una stella come sei bella e se e' una femmina si chiamerà futura. Il suo nome detto questa notte mette già paura sarà diversa bella come una stella sarai tu in miniatura ma non fermarti voglio ancora baciarti chiudi i tuoi occhi non voltarti indietro qui tutto il mondo sembra fatto di vetro e sta cadendo a pezzi come un vecchio presepio. Di più, muoviti più fretta di più, benedetta più su, nel silenzio tra le nuvole, più su che si arriva alla luna,si la luna ma non e' bella come te questa luna e' una sottana americana Allora su mettendoci di fianco,più su guida tu che sono stanco, più su in mezzo ai razzi e a un batticuore, più su son sicuro che c'e' il sole ma che sole e' un cappello di ghiaccio questo sole e' una catena di ferro senza amore, amore, amore, amore. Lento lento adesso batte più lento ciao, come stai il tuo cuore lo sento i tuoi occhi così belli non li ho visti mai ma adesso non voltarti voglio ancora guardarti non girare la testa dove sono le tue mani aspettiamo che ritorni la luce di sentire una voce aspettiamo senza avere paura, domani.

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Giornata molto pesante. Sotto diversi punti di vista i pensieri hanno picchiato in testa. Come i motori un po' fuori fase. C'è qualcuno che ogni tanto riesce a scombinarmi un po' i pensieri. Gliel'ho ricordato tre settimane fa e gliel'ho ripetuto oggi. Prima a lui e poi al di lui guardaspalle.
Non ne posso più di nessun dei due. Di come provano a spremermi i maroni, i neuroni e di come rigirano nelle mie paure.
Bona. Avete rotto il cazzo.

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Penso.
Penso che vorrei saper fare surf sulla schiena dei sogni, per sapre se c’è una spiaggia in cui diventano sabbia e sole.
Penso che vorrei saper contare le gocce di pioggia che cadono e capire perché sono tutte diverse.
Penso che in un solo preciso momento, oggi, ho capito che potrebbe davvero tornare estate. E ho sorriso.
Penso che vorrei un gatto a girare per casa, ma che significherebbe lo sfratto di mia mamma, di mio padre e quindi, in conclusione il mio. E quindi devo adeguarmi a invidiare il tuo.
Penso che forse dovrei essere diverso e debordare meno e essere più normale e più prevedibile e più qualcos’altro che adesso mica mi viene.
Penso che le nonne che ci sono a Bologna e che sanno fare la sfoglia così non ci sono mica da un’altra parte.
Penso che il tuo sguardo delle volte è come la spiaggia in estate alle otto di sera, con quella luce lì e gli utlimi due bimbi che giocano a ping pong mentre la mamma raccoglie il telo e le formine.
Penso che vorrei saper vedere cosa nascondi fra le dita dei pensieri e vorrei poter aprire quelle dita e assaggiarle per sentire cos’hai mangiato con le mani.
Penso che ho bisogno di un etto e mezzo di crudo da divorare dal cartoccio, ma in frigo ho solo delle olive snocciolate. Che non sono la stessa cosa.
Penso che ci sarà sempre una storia da raccontare nella mia testa e spero che tu la vorrai sempre sentire.
Penso che delle volte le cagate di M. mi fanno il solletico sotto i piedi del cuore. E non resisto al solletico.
Penso che stasera mi metterò a leggere e smetterò quando mi esploderanno i pensieri.
Penso che tu stia già dormendo e visto che leggerai qui quando invece sarai sveglia ti dico che adesso, mentre scrivo, ho pensato che stessi russando. È un po’ contorto, ma magari so è capito.
Penso che sto bene, ma non proprio sempre sempre. Solo certe volte e con certe angolazioni dell’inquadratura.
Penso che Bologna è ancora un gran bel posto per sparare cazzate, per piangere, per ridere, per scrivere, per pensare a passarti una mano intorno alle spalle e quindi alla fine per vivere.
Penso che è tardi. Ma delle volte è troppo presto.
Penso che ti penso. E magari se stai in silenzio un attimo riesci a sentirlo pure tu.
Dentro.

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28 aprile 2003




Per fortuna che ogni tanto in Italia si vota!
Per fortuna perché così si risollevano le sorti del varietà. Perché le dichiarzaioni di Bossi e di Castelli devono essere il promo per una nuova striscia comica preserale, forse un traino al Tg2, in concorrenza con Amadeus.
Bossi dice vogliamo il federalismo culturale. Oh bella. Il federalismo culturale. Perché c’è una cultura centrale? Qualcuno mi ha mai obbligato a dirla pirla invece che cretén? O al mortacci invece che socmél? O ci sono alcuni paesi del Nord dove la piazza del paese è intitolata a Romolo e Remo? Che cos’è il federalismo culturale, uno speciale contenitore per cuscini da portare sotto il sedere?
Ma non è contento. No. Parlando della legge sul federalismo, che la Lega non voterà, dice non votiamo l’interesse nazionale. Bossi ministro delle riforme costituzionali è come il professor Moriarty ministro della Giustizia. Come usare la Sars per curare il raffreddore.
E dopo Bossi, Castelli. Che faceva l’ingegnere, aveva uno studio e si ritrova a firmare anziché un bel progetto, una legge per Previti. E dice che è un imputato come un altro. E siccome anche il tribunale di Milano è un tribunale come un altro, allora gli mando un’ispezione. Perché? Perché Previti dice che ha dei sospetti sull’operato dei giudici. Ah, ecco. Se domani mi arrestano e ho dei dubbi sul tribunale che mi accusa e faccio un esposto al mio collega catselli, quanto tempo pensate che ci metta prima di mandare un’ispezione al tribunale di Bologna? Credo che nel tempo che impiega la mia povera carcassa a passare cinque reincarnazioni ce la possiamo fare.
Certo che sono meglio di Sognando Las Vegas. Se Bossi si tinge un po’ i capelli e con due pillole di ormoni si fa venire le tette, fa più successo della Corna.
Stasera ha aggiunto che deve sostituire un po’ di gente nel partito. Al nord c’è bisogno di gente rivoluzionaria. Perché dice da quando siamo entrati nel sistema ci siamo un po’ seduti.
Sì. Per terra. A fumare.
Se chiedevano a Miccichè magari gli arrivava roba un po’ più buona.

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Mentre viene giù una sera umida e tiepida colorata d’azzurro regalo un pensiero a una bambina.
Una bimba piccola piccola, solo quattro anni.
Mi hanno raccontato quello che ti è successo oggi, mentre salivo in ascensore. E ho pensato subito a quelle manine piccole piccole che stavano attaccate al mio polso. E a te che ridevi.
C’ho pensato. E ti mando un pensiero stasera.
Adesso. Da qui.
Perché voglio vederti ancora ridere e saltare.

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Sto rileggendo una cosa che mi ha fatto ridere.
Oh, mi fa ridere, cosa volete che vi dica? Mi fa ridere. E il fatto è che ci riesce con semplicità. Senza sforzo apparente. Raccontando le cose come stanno e trovando il lato divertente della loro normalità. la schiettezza e la ruvida tenerezza delle persone di queste parti.
Vorrei tirare fuori tutti i tuoi talenti. Farli conoscere. Colorarli insieme alle tue mani.
Ne hai un tot, inventrice di nomi e di voci.
Falli esplodere tutti, per favore. Fammi sentire lo spruzzo di coriandoli della tua risata.
E fammi ridere. Fammi ridere ancora.
E' la cosa che mi piace di più di te.

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C’era una lettera strana nella rubrica di Augias oggi, su Repubblica.
Parlava di scrittura e mi ha fatto riflettere. Non mi sono ritrovato molto nei dubbi della donna che scriveva. Non ho mai pensato che scrivere sia un demone o una disgrazia.
Penso spesso che sia una cura. E non una cura per scappare dalla realtà, ma per capire la realtà, quella che ci circonda e quella che abbiamo dentro. E non mi capita, leggendo un libro, di cercare di cogliere la struttra della frase o di capire i meccanismi che stanno dietro alla scrittura. Forse, inconsapevolmente, dopo che ho letto. Non durante.
Però mi capita di pensare a come posso scrivere di un’emozione, di qualcosa che provo, che sento, che mi fa felice, che mi fa paura. E mi capita di pensare che per descrivere un’emozione, per renderla vera, bisogna averla vissuta. Sentirla, col significato di Sentire che te, Editor di libri e pensieri, conosci bene.
Ci ripensavo stasera varcando la metà del libro di Giorgio Faletti. Pensavo a quanta differenza di verità ci sia fra il romanzo nel suo insieme e le scene in cui il killer parla o pensa. O in cui Ottobre parla e pensa e soprattutto ricorda.
Solitudine e paura.
Solitudine e paura sono due emozioni strane da raccontare. Strane perché spesso e volentieri vanno insieme. Sia ha paura perché si è soli o si teme di diventarlo. O si è soli perché si ha paura. Di rapporti umani, anche solo di mettersi in gioco.
Ci riesce bene a raccontarle, Faletti. Ci riescee talmente bene che continuo a chiedermi quante volte, in notti lunghe come questa, si sia seduto davanti a un foglio bianco a pensare un modo per dare una forma, una vita, una sostanza ai fantasmi che gli circolano in testa.
Spesso già solo guardarli in faccia per poterli descrivere può essere sufficiente a spaventarti abbastanza.

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27 aprile 2003




Ci sono giorni che hanno una luce strana.
Giorni che le parole inciampano e non vengono fuori bene. Giorni in cui mi perdo a leggere un libro, come ho fatto oggi e ci lascio lì il pomeriggio. E poi mi attacco a scrivere e non la smetto più, come se si fosse mosso qualcosa, un interruttore, un ponte radio, una spina nella presa.
Giorni in cui guardare in faccia un amico, come stamattina, mi fa bene.
Giorni in cui il sole sembra una carabina che spara dritto per dritto qualcosa di caldo con cui sfamarsi.
Giorni in cui esco persto alla mattina e vado a correre e mentre corro mando un messaggio che ormai scapuzzo nel laghetto insieme alle anatre e a quello stronzo del cigno. Che il cigno sarà anche bello ad vedere, ma andrebbe rasato via dalla faccia della terra.
Giorni in cui le sorie si accavallano e io decido solo la precedenza, come un vigile in mezzo a un incrocio.
Giorni in cui penso ai due babbioni che sono usciti a metà proiezione ieri, dopo aver sottotitolato in stretto dialetto tutto il film e chissà cosa si aspettavano.
Giorni in cui le impressioni sono più forti e le sensazioni sono come sapori, come odori, come carne e sorrisi.
E vanno tutte nella stessa direzione. Verso uno sguardo che sembra non guardare e che vede tutto.
Stamattina ascoltavo il morbido dell’erba sotto le scarpe da ginnastica. C’era una luce stranissima, grigia e gialla. C’era una domenica mattina da non passare a gubbiare e il peso di una notte insonne.
C’eri tu nei miei pensieri.
Come adesso.

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Quando il colore di un pensiero prende la sfumatura di uno sguardo allora riesco a sorridere anche fuori. Non solo dentro.
Mi piace pensare che quel coso penzoli da quel mazzo di chiavi e mi piace l’assoluta imprevedibilità di un tuo sguardo e di un tuo pensiero.
Mi piace il tuo inseguire il tempo e il tuo farti inseguire. E il riuscire incredibilmente a centrare alla eprfezione l'attimo e il momento.
Sarà culo.
E mi piace la tua testa d’argento a pera, silver bullet.
Sei la pallottola d’argento capace di uccidere tutti i lupi mannari nella mia testa.
Certe volte la notte ti vede, ti ascolta, riesci incredibilemente a farla ghignare e lei passa via più in fretta.

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Quando ero piccolo sognavo sempre i mostri. E anche ora da adulto, ogni tanto, mi capita, ma non riesco più a fregarli.

Niccolò Ammaniti, Io non ho paura


Anch’io da piccolo sognavo i mostri. Li sognavo ed erano quasi sempre robe tipo i vermi, cose senza occhi e con troppi denti. Troppi denti per stare in una bocca chiusa. In una bocca sola.
Chissà che mostri sogna Michele.
Me lo sono chiesto oggi, al cinema, mentre mi è tornata in mente quella frase. Come tu puoi immaginare non esattamente com’è scritta. Chissà che mostri può sognare ora da adulto uno che ha scoperto da piccolo che i mostri veri, quelli che fanno paura, stanno nel mondo reale. E spesso hanno delle facce a cui vuoi bene, delle facce che ti mancano quando non ci sono. Gente di cui ti fidi. Persone che hanno un sorriso forse buono. O almeno tu – o io – a 10 anni li vedi buoni.
C’è il mondo di un bambino in Io non ho paura e alcuni meravigliosi debiti con It. Debiti dovuti e inevitabili.
C’è il mondo dei bambini e la crudeltà dei bambini, quella semplic,e diretta, elementare. Quella che non passa sopra a niente.
C’è il gioco inventato con niente e far finta di essere un caccia in mezzo al grano, le mani aperte a simulare le ali. E correre dritto per dritto su per il grano a evitare una penitenza. E i rapporti con l’amico del cuore che ti tradisce e poi ti chiede scusa, come succede solo da bimbi.
E c’è la semplicità dei rapporti che solo a quell’età si ha. Quel siamo uguali perché abbiamo la stessa età e facciamo la stessa classe. Siamo uguali, anche se tu hai una casa e mi porti il pane e io sto dentro a un buco e sono morto e la mia mamma è morta e il mio papà e non posso tenere gli occhi aperti perché la luce mi fa male.
Siamo uguali. Anche nel mondo di conoscere il mondo. Perché un bambino a quell’età è come un cieco che impara ogni giorno a conoscere un colore nuovo, una forma nuova, un sogno nuovo, un incubo nuovo.
Anche in una grotta. Anche in una casa.
E l’infanzia è chiusa nel libro di Ammaniti e nel film di Salvatores. Con i suoi giochi, con la cattiverie e l’ingiustizia e le prove di coraggio, con il non capire il mondo dei grandi e con la capacità di poter amare anche chi capiamo che fa del male. Con la semplicità e l’incoscienza.
E con la certezza che da grandi non sarà più così.
E che cercheremo per tutta la vita di capire perché non lo è più.
Perché non saremo mai più capaci come allora di dire di non avere paura sapendo con assoluta certezza che è vero.

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26 aprile 2003




Sono d’accordo con Michela Serra, con l’amaca di ieri che naturalmente Repubblica online non pubblica. La differnza fra il 25 aprile di tanti governi e quello di questo è che il pres. del cons. (con Berlusconi occorre usare le abbreviazioni per utilizzare tutte le sue cariche, troppi caratteri) non è antifascista.
Lo ha dimostrato semplicemente con il silenzio e l’assenza. In compenso fa parlare tutti i suoi sottopancia come quelli della generazione che il fascismo l’ha sentito sulla pelle chiamavano i vari Bondi, Schifani, Vito, Garagnani o chi per lui. Per compensare il silenzio il buon Silvio è andato a Nizza a trovare la di lui figlia. Operazione onorevole come la sua carica, ma la carica stessa avrebbe richiesto altro impegno. D’altra parte un viaggio in elicottero permette di girare avanti e indrè con la costa azzurra senza problemi e la buona Marina avrebbe potuto aspettare no?
Invece pare fosse urgente. Forse anche lei aveva male alla mano – chiaramente la sinistra – e non poteva tenere in braccio il pargolo. Magari con due destre, la sua e quella del padre, sono riusciti a cullarlo cantando il soporifero jingle di forza Italia per cui John Williams dovrebbe chiedere i dxanni, tanto è simile alla colonna sonora di Jurassic park. E anche qui ci sarebbe da pensare.
E così mentre fuori scoppia la primavera e finalmente qualcosa che scoppia che non fa male a nessuno – forse agli allergici come me appena un po’, ma va bene – continuo a sentire la puzza di tutte queste stronzate. Perché confondere il giusto con lo sbagliato – Previti con la Giustizia, per esempio – pare essere una componente fondamentale del governo del nano.
La nostra società si differenzia dall’Iraq, dall’Iran, dal Cile di Pinochet, dall’Argentina di Videla, dlla maggioranza dei regimi africani per cui nessuno spreca soldi o bombe, ma per cui si sprecano i morti, perché si basa su certi principi. Principi che stavano alla base della guerra di Liberazione. C’erano i partigiani e gli alleati e senza gli Alleati si andava poco in là, questo è sicuro. Ma conta così poco, ad esempio, che l’Italia che voleva la libertàabbia deciso di lottare e di combattere e di morire contro l’Italia che voleva difendeere Mussolini e Hitler? Conta così poco essere antifascisti? O forse, come tutti i semplici, Berlusconi confonde la possibilità di essere contemporaneamente antifascista e anitcomunista. Sta nei suoi diritti costituzionali. Quella Costituzione che si basa anche sui principi della lotta antifascista.
Quella Costituzione che lui e il Bossi vogliono cambiare.
Sperando che ci sia ancora in Italia la forza per poter cambiare prima loro.
La puzza comincia a diventare davvero troppo forte.

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25 aprile 2003




Racconti.
Parole che scivolano leggere e che non so nemmeno io come tiro fuori. Finalmente. Parole che dico e che graffiano piano il palato mentre le dico, ma il palato di tanto tempo fa.
Musica che non suona e una granita bonsai buona, ma incompleta.
Stai a destra come tormentone e occhi lucidi che si riempiono di luce accarezzati dal lampione, da quello che nascondono dietro, dalla luna, dalla notte che una luce sua già ce l’ha.
Una storia che nasce e parte e cresce in fretta. Relazioni che si intrecciano, personaggi che nascono, crescono, fanno e disfano, credono, si incontrano, forse si odiano, forse no.
Bologna dietro che ascolta come albero, come strada, come un gruppo di sbarbi - carina la tipa! - che passa vicino agli occhi.
Una filippica e un patto. Una speranza mia chiusa in piccole dita che mi sono sembrate aprirsi, come un fiore che mostra piano piano i colori.
Vita che scorre in un modo buffo, assurdo e per questo assolutamente unico. Cioccolata colorata e amara.
Un po’ di paura, mia, ogni tanto, come l’eco di un sonar che scandaglia il mare a caccia di relitti.
Fili che si riannodano, tracce perse che si ritrovano piano piano. Cose non dette da dire. Cose successe da raccontare. Labbra da cui non pendere mai.
Una canzone unica che non sono riuscito a scrivere per te e io che ho molto meno che vent’anni e stancami e parlami e abbracciami e accidenti a radio capital.
Avevi qualcosa che non so. Qualcosa che mi è rimasto sulla pelle come il sale del mare quando fai il bagno, di notte, l’acqua ti rinfresca i pensieri e il silenzio della spiaggia ti abbraccia, lasciandoti un brivido appena messo piede fuori dall’acqua.
Adesso è quasi sera. Ma quel sapore è ancora qui. Non se ne va.
Per questo lo cerco insieme ai tuoi pensieri.
Mi piacciono le stoffe ruvide come te. Sono quelle che se le sai portare addosso poi finiscono per scaldarti di più.
Volami addosso se questo è un valzer, volami addosso qualunque cosa sia..
Volami addosso che questo post melenso è tuo.

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24 aprile 2003




Su D+ Ricette d’amore.
Mi incollo allo schermo come un babbuino davanti a un negozio di banane per un film che sento molto mio. E per mille motivi.
Penso a Castellitto e alla sua faccia buffa e beffarda e al suo modo di prendere la vita un po’ alla leggera – alla carlona diceva mia nonna -, ma con la consapevolezza che le faccende serie vanno affrontate. E affrontate in un certo modo. Con una certa dolce, tenera , sincera e decisa serietà.
Di ricette d’amore ricordo il cinema minuscolo, il pallolissimo documentario su Lisbona che sapeva di settimana Incom – ma te eri stata dappertutto, che rabbia :=) – e la sensazione che ho avuto guardandolo.
Cazzo, io sono così. Ho pensato. Anzi, correggo. Io sono così con te. Perché te sei un po’ come la crucca del film, come un avocado o un mango, che per spaccare la guscia ce ne vuole, ma dentro poi le cose sono molto diverse.
E io sono uno che può cominciare benissimo la giornata con una canzone o una cazzata a uso e consumo del suo pubblico o della sua Lettrice, ma dentro potrebbe stare in qualunque modo. La vita è fatta di priorità, dice il signor Magnum Algida e anch’io sono fatto di priorità. Anche il cuoco italiano del film è fatto di priorità. E per lui, come per me, la priorità viene da fuori di sé. Perché quella priorità, che passa dal fare un piatto di spaghi al sugo a una bimba che dorme su un lavello, al prendere la macchina e partire avendo per meta un sogno, al tacere e prendere anche brusco perché in quel momento va bene così, beh, quella priorità serve a farti essere la persona che sei. Serve a far dire sono quello che sono. Forse un pagliaccio, forse un clown. Ma senza maschera. Uno che ride e scherza, ma non cade e su cui puoi appoggiare anche un ponte levatoio che tanto resta in piedi.
Ho sempre pensato che sono le persone che sembrano in realtà più fragili a nascondere le risorse che non trovi da nessuna parte. Un po’ come dice la Hart nel danno. Chi lo ha subito è pericoloso, perché sa che può sopravvivere. Con la fragilità funziona uguale. Se sai quanto sia difficile stare in piedi allora sei anche capace di capire quanto sia difficile per qualcun altro. E aiutarlo a camminare quando tutto si sposta.
Lo fa Castellitto nel film con la ragazza tedesca. Lui che sembra così fragile nella sua folle e clownesca vita. Lei che sembra così rigorosa e rigida nella sua fragilissima insicurezza.
Perché ci sono molti modi per nascondere al mondo che sei sempre sul punto di sgretolarti e ognuno usa il suo, come il mimetismo degli animali.
Può far finta che la pelle sia di marmo e far credere che non ti spezzeresti nemmeno con un martello pneumatico.
Oppure fare rumore e diventare buffo fino al punto di rischiare che il mondo ti consideri un folle.
Tu lo sai che io sono come lui.
Tu lo sai che con te sono come lui. Colori che nascondono le mie ombre. Colori che ci sono e che sono forti e teneri e duri.
E che adesso toccano la tua sera e le tue mani.
So che quel film te lo ricordi anche tu.

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23 aprile 2003




A volte mi sembra che ci sia qualcosa in me che non va. A volte mi sembra che vada troppo.
Sono un tipo senza limitatore, forse. O forse con un eccesso di limiti.
Mi piacerebbe riuscire a vedermi da fuori. A guardare Patrick com'è e a sapere che effetto fa vederlo da fuori.
A sentire che effetto fanno le mie parole.
E' una domanda che mi faccio spesso, una cosa a cui penso spesso.
Vorrei essere una coperta calda per i giorni di neve e un vestito leggero da passarci l'estate. Una fontanella d'acqua fresca dopo una camminata, un gelato da far vergognare il palato nelle sere troppo calde. Un paio di guanti per prendere in mano la vita senza lasciarci le impronte digitali. Un sacco in cui lasciare il dolore in silenzio, con una parola, un gesto o una carezza. Il dolore degli altri e il mio. Una risata a bocca chiusa, con lo spruzzo.
Una cosa così. Una roba semplice, come l'odore del pane a notte alta, quando tornavo a casa a degli orari orrendi.
E invece certi momenti mi sento soltanto come uno di quei maglioni sformati che mettevo al liceo, che anch'io come il fratello di Muccino mi sono sempre vestito da sfigato di sinistra. E in quei giorni lì mi sorprendo a chiedermi cosa ci sia sotto, come sia quella pelle che il maglione copra. Quali pensieri ci corrono sotto.
A volte nemmeno io so bene come sono.

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Ci sono delle cose che mi istigano il vomito come due dita piantate in gola.
Il signor Bondi - onorevole solo di ruolo, a quanto pare - insinua che la strage di Marzabotto sia stata colpa dei partigiani.
Ora, a parte il mio odio personale contro chi insinua, spesso perché non ha i coglioni o le prove per affermare, trovo che tutte queste schifezze sul 25 aprile in Italia siano stomachevoli e uso apposta un temrine proprio dei mie nonni che quei giorni li hanno vissuti, in prima persona.
Trovo stomachevole il silenzio ipocrita di Berlusconi di fronte alle cazzate - io non insinuo - dei suoi leccapiedi. Trovo stomachevole che ogni anno si cerchi di mettere le mani su una festa nazionale che rappresenta un momento di unità solo per fare propaganda politica.
In Italia, 60 anni fa, c'è stata una guerra civile. In Italia 60 anni c'era uno stato nello stato chiamato repubblica sociale - movimento sociale non è un'assonanza, ma una discendenza - in cui militavano i fascisti che sostenevano la dittatura di Mussolini e l'occupazione tedesca.
In Italia c'era gente che moriva e moriva da una parte e dall'altra. Solo che c'era chi moriva per cercare di costruirsi un futuro libero - partigiano o soldato alleato che fosse - e chi per mantenere e tentare di salvare una dittatura sanguinaria e inumana. Per me quei morti non stanno sullo stesso piano, al di là della pietà umana.
E mi chiedo cosa succederebbe se in Cile oggi qualcuno cercasse di mettere sullo stesso piano le vittime di Pinochet e i soldati di quella dittatura. O se in Argentina i desaparecidos e le vittime fra i militari di Videla fossero considerate la stessa cosa. O se le vittime del franmchismo spagnolo siano la stessa cosa delle vittime nel franchismo spagnolo.
Mi fa schifo chi ragiona così. Mi fa schifo perché andiamo verso momenti in cui chi ha vissuto quei giorni non potrà più raccontarli. Perché saranno tutti morti. I più fortunati di vecchiaia. E avrà vita facile chi racconta certe stronzate. Chi le spaccia per verità, per dati di fatto storici.
Non c'erano buoni da una parte e cattivi dall'altra. No. Ma due parti distinte sì.
E il molto poco onorevole signor Bondi con quella sua aria sudaticcia da soldatino spaventato farebbe bene a infilarsi uno straccio in bocca anziché dire certe cose. O forse sarebbe il suo capo a doverlo richiamare all'ordine.
Ma tanto non lo farà.
Anche lui è uno che insinua. Con la sua cultura e la sua conoscenza della storia non potrebbe d'altra parte fare altrimenti.

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22 aprile 2003




Il gatto mi morde una caviglia, ma piano, senza far male.
Io azzanno - facendole male - una fetta di torta al cioccolata. Ho voglia di un gelato al pistacchio e cioccolato.
Di uno scaldino che mi ravvivi un po' le dita delle mani. Di un termosifone che scaldi un po' l'ambiente che il mio ufezi è l'unico posto di Bologna dove oggi si congela.

Da bimbo pensavo che quando stavi male era come se ti chiudeva in una grotta trasparente. Furoi ti vedevano e tutto sembrava a posto. Ma te eri nella grotta. Per te era buio laggiù. E nessuno se ne accorgeva. Come la bambola di mia madre che avevo in camera e che di notte mi camminava sul cuscino.
A volte penso che quella grotta trasparente ci sia ancora.
Ma a volte no.

Dai micio micio, smetti di sprasolarmi il calzetto e fatti spupazzare un po'. No, la torta non te la lascio. La torta no.
E non mangiarmi gli apputni del clienteeeeeeeee!!!!!!!!!!

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My baby don't care for shows My baby don't care for clothes My baby just cares for me My baby don't care for cars and races My baby don't care for high-tone places
Liz Taylor is not his style And even Lana Turner's smile Is somethin' he can't see My baby don't care who knows My baby just cares for me Baby, my baby don't care for shows And he don't even care for clothes He cares for me My baby don't care For cars and races My baby don't care for He don't care for high-tone places Liz Taylor is not his style And even Liberace's smile Is something he can't see Is something he can't see I wonder what's wrong with baby My baby just cares for My baby just cares for My baby just cares for me

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21 aprile 2003




Voglio parlare di una cosa. E' un po' lunga, lo so. E chiedo scusa in anticipo.
Sono due giorni che scrivo. Quasi ininterrotti, solo con uno spazio brevissimo per andare ieri sera a vedere the hours. Non voglio parlare del film. Solo dire che è bello e vero. Come assolutamente vera è la frase che ho postato oggi. Vera in assoluto e vera per motivi totalmente miei. E tenera nella sua difficoltà. Perché certe volte è difficile dire le cose.
Sono due giorni che scrivo, mettendo a posto pezzi, situazioni e mi sono accorto che stavo scrivendo di qualcuno.
Stavo scrivendo di mio zio.

Mio zio era il fratello di mia nonna, come mio nonno per me e come un papà per mio padre. Veniva spesso a casa nostra a spezzare la lunghissima noia dei pomeriggi fuori dalla scuola, la lunghissima solitudine di un bambino strano come il sottoscritto. Si piazzava in cucina e parlava di politica con mia nonna e mangiava pane e nutella con me. Mi insegnava a fare braccio di ferro con le sue braccia sottili ma piene di nervi fortissimi che culminavano in una pallina di bicipite dura come il piombo.
Poi, quando sono cresciuto, a cominciato a insegnarmi a giocare a carte. A briscola, a tresette, a scopa e sbarazzino, randellandomi severamente e senza pietà. Come si dice in casa mia se nel mazzo ci sono 40 carte lui ne conosceva 42. Uno di quelli che all’ultima mano di un tresette ti dice cos’hai in mano senza nemmeno l’ombra di un dubbio.
Con mio zio imbottigliavamo il vino, in lunghi pomeriggi pieni di moscerini e di odore di damigiane e di tappi di sughero, con mio padre che allora qualche volta sorrideva ancora. Con mio zio si andava a Comacchio a trovare il retso della famiglia, gente che per me era solo un nome e che non ho mai più rivisto né sentito.
Con mio zio sono andato per la prima volta in sezione e da lui ho imparato a sapere come si combattono le battaglie che sembrano perse. Quelle in cui lotti sapendo già che non vincerai o che potresti perdere.
Era un uomo piccolo, con due grandissimi baffi neri e un sorriso aperto, sincero, che ti tagliava a fette gli occhi e i pensieri. Uno che diceva quello che pensava e che aveva preso botte e galera nella sua vita proprio per quello che pensava. Uno che se lo guardavi sapevi che ti vedeva dentro. Uno dda cui ho sempre sperato di aver preso qualcosa.

Avevo sedici anni quando si è ammalato.
L’esatta metà di quanti ne ho adesso. Fumava tre pacchetti di sigarette al giorno. Quando andava bene. Un giorno ha preso una mezza influenza e gli hanno fatto una lastra. Sulla lastra c’era una macchia bianca. Ma non sulla lastra, ma dentro la lastra, dentro a un polmone.
Non l’hanno mai nemmeno operato.
Per un po’ ha continuato a venirmi a trovare a casa, praticamente tutti i pomeriggi. Tornavo dall’allenamento e lo trovavo lì. Mangiava come un vitello affamato e se lui pensava che fosse perché cominciava a stare bene e la primavera arrivava, io sapevo che erano le medicine che gli alteravano l’appetito e ogni tanto cambiavo discorso per riuscire a non mentirgli.
Poi ha smesso di venire a casa mia e ho cominciato ad andare io a casa sua. Uscivo dall’allenamento, prendevo la bici e andavo a S.Donato a trovarlo. A volte di nascosto dai miei, che non so perché, ma un po’ mi vergognavo. Sembrava sempre lo stesso e finivamo per andare a fare un giro nel giardinetto che c’è sotto casa sua o a prendere un gelato – cazzo se gli piaceva il gelato! – o a farci una briscola come sempre.
Poi non siamo usciti più. Poi ha cominciato a non riuscire più ad alzarsi dalla sedia e poi dal letto. Poi la sua magrezza ha smesso di essere uno specchio di forza e ha cominciato a sembrare un avviso, una specie di spia, di segnale d’allarme.
Un pomeriggio di febbraio ero rimasto solo con lui, in casa sua. Una delle rare volte. Sono andato un attimo in bagno e quando sono uscito l’ho trovato nel piccolo terrazzino che dava su via S.Donato. Aveva preso una sedia, forse con l’ultimo briciolo di forze che gli erano rimaste o forse sommandole tutte, tutte quelle che aveva messo da parte e non sapeva più come usare, e c’era salito sopra. Io sono rimasto lì, fermo fuori dal terrazzino a guardarlo. A guardare quella consapevolezza di un uomo che aveva visto svanire una guerra, ma che stava perdendo la sua di battaglia. E che piuttosto che perderla preferiva chiuderla lì, come fosse un armistizio.
No credo di avergli detto o almeno ricordo così. Lui mi ha guardato, si è asciugato una lacrima, mi ha allungato le mani e si è fatto aiutare a scendere. Mentre lo accompagnavo in salotto ho sentito le sue mani dure e ossute che si stringevano alle mie spalle come fossi un labero, un albero di un metro e ottanta e sedici anni di età. Un albero che era diventato albero anche grazie a lui.

L’ultima settimana di notte stavo là.
Andavo al fermi la mattina, ad allenarmi al pomeriggio e poi da lui. Spesos anche alla notte. Tre o quattro volte alla settimana. Quando senti che il tempo scorre via troppo svelto vorresti fermarlo, vorresti rallentarlo, tirarlo per i capelli, per le braccia, per i piedi e non farlo andare via. Anche se tutti i minuti scorrono semrpe alla stessa velocità, beh, non è così, non ti sembra che sia così. Non ti sembra che vada avanti uguale, non ti sembra che scorra allo stesso modo.
Ogni tanto mi addormentavo sulla sedia.
Poi mi svegliavo, di colpo e restavo in silenzio, ad ascoltare se respirava. E sentivo il tentativo dell’aria di entrare e uscire da quei polmoni, di farsi strada in mezzo a chissà che cosa e chissà perché. Lo vedevo nella penombra della luce che restava sempre accesa, con la bocca aperta a cercare aria, il collo piegato da una parte, le braccia segnate dalla flebo che tutti i giorni i volontari della domiciliazione – che nell’87 erano davvero pochi – venivano a mettere e togliere.
A uno di questi, un giorno, ho chiesto come facesse a fare quel lavoro. E lui mi ha risposto diceendo che lo faceva trovando le forze esattamente dove le trovavo io che andavo lì tutti i giorni a guardarlo andarsene piano piano, in silenzio com’era vissuto.
Forse era vero. Un giorno poi quel medico me lo sono trovato di fronte in un campo da tennis e alla fine mi ha detto quando giochi hai lo stesso coraggio che avevi in quei giorni là. E io stronzo non ho saputo cosa trovare da rispondergli. Nemmeno grazie.

È morto un giorno di primavera, il 21 aprile del 1987. Il giorno della Liberazione di Bologna di cui tante volte mi aveva raccontato. Non c’ero quand’è successo. Stavo giocando una stupida e fottuta partita di tennis. L’unico giorno in cui non ci sono andato. Non me lo perdonerò mai.

Quando l’ho visto ho pensato per la prima volta che un essere umano poteva diventare piccolissimo. Come se quello che ci fa sembrare grandi e forti in realtà sia la Vita e i Pensieri e le Emozioni e il Coraggio e le mani che si muovono e gli occhi che guardno da qualche parte e che sembrano vedere sempre tutto quanto. Svanito questo tutto si affloscia.
Quando l’ho visto, in quella camera in cui lo avevo accompagnato in tante notti dopo averlo portato in bagno, dopo averlgi bagnato le labbra con del ghiaccio o aver tentato di dargli un goccio d’acqua da bere, ho sentito solo una gran rabbia e un gran dolore e un desiderio irrefrenabile di prendermela con qualcuno perchè porcatroia non era giusto. E qualcuno a cui dare una fottuta colpa ci doveva essere.
Ma non c’era. C’era solo il fatto inspiegabile e ingiustificabile che certe cose funzionano così. È solo e semplicemente la vita.

Mi sono reso conto oggi che è lo stesso giorno.
Mi sono reso conto oggi che non era un caso se cercando un pretesto narrativo avevo tirato fuori i miei ricordi per farli diventare un personaggio. E mi sono reso conto oggi che quella frase che ho sentito ieri sera la cinema dopo averla letta nel libro e che ho trascritto qui non solo per me, in realtà andava bene anche per me.
Al tennis non hanno saputo cosa fosse successo e quando lo hanno saputo devono aver pensato che fossi il più assurdo e insensibile stronzo sulla faccia della terra. Al Fermi probabilmente uguale. Io non ho sentimenti, per il mondo, e tutto quello che potresti vedere da fuori è solo un uomo oggi e un ragazzo allora che ride e scherza e gioca e ti prende per il culo e si prende per il culo esattamente come tutti gli altri giorni dell’anno.
Uno che dieceva una cazzata e poi, a casa, quando rimaneva solo, si chiudeva in camera a piangere come tutti quanti. Solo in silenzio.
Per questo sono Mrs Dalloway. E forse per questo mi sono commosso profondamente vedendo i dolori terribili e inavvicinabili di Virginia Woolf attraverso gli occhi di Nicole Kidman.
Forse per questo ho ammirato e ammiro certe compostezze nel dolore e forse per questo capisco, vedo e intuisco cosa si nasconde dietro certi sguardi, sguardi fondi e lunghi, pieni di silenzio e di richiesta di aiuto. Magari interpretata come indifferenza.

Non ho mai trovato qualcuno che sapesse interpretare nel modo giusto la mi di indifferenza. Mai nessuno che abbia capito che dietro al mio orgoglio e al far sembrare tutto normale stava tutto il dolore che può stare in una lacrima versata in pubblico. In una richiesta di aiuto. Io non so chiedere aiuto, perché non me lo hanno insegnato. Perché non sono capace.

Non c’è stato nessuno che l’ha capito.
Tranne tu. Non so come hai fatto, ma è così.

Quando lo portai a letto la sera dell’episodio della seggiola, mi guardò negli occhi e mi disse semplicemente grazie.
Anche allora non gli risposi. Ma gli diedi una carezza.
Voleva semplicemente dire che mi avrebbe avuto a fianco, sempre e comunque, ad asciugargli la fronte quando sudava freddo e caldo di notte, a raccontargli le mie giornate nel silenzio delle sue parole, a guardarlo lì, sottile come un pensiero mentre mi lasciava se stesso da ricordare per sempre.
Anche adesso.

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- Oh stai leggendo un libro! Di cosa parla?
- Parla di una donna. Una padrona di casa perfetta. deve dare una festa. E forse proprio perchè sembra così sicura di sè tutti credono che stia bene. Ma in realtà non è vero.

The Hours di Stephen Daldry, sceneggiatura di David Hare dal romanzo di Michael Cunningham

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20 aprile 2003




Una roba così l'avevo scritta anch'io, un po di tempo fa. Oggi, rileggendola, ho deciso che doveva stare qui. ma basta il link

@3:47:00 PM - permalink - 0 commenti






Cazzo, succedono cose stranissime.
Stamattina ho acceso la radio. L’ho fatto per caso, di solito a quell’ora non capita mai. E ho sentito questa.
I go out most nights Attracted by the lights Listen to the jazz in Harry's Bar And I know it won't be long Before they play that song Do you know how wonderful you are It's a sentimental sound Make me wanna fool around With somebody who is wishing on a star I'll pull my hat down low Go up and say hello Do you know how wonderful you are Oh we struggle with the art of conversation And there'll be those for whom this song has no appeal But I know it works for me And I'm sure you will agree That it illustrates exactly how I feel Things can happen fast Some things are built to last I've seen it all go down in Harry's Bar Though we've only just begun This sure will run and run Do you know how wonderful you are I've always struggled with the art of conversation And there'll be those for whom this song has no appeal But I know it works for me And I'm sure you will agree That it illustrates exactly how I feel Things can happen fast Some things are built to last I've seen it all go down in Harry's Bar Though we've only just begun This sure will run and run Do you know how wonderful you are
Beh io questa canzone la adoro e mi è venuto in mente quando circa un anno fa, proprio di questi tempi, l’ho sentita cantare al telefono. Erano belli quei sussurri, fra una goccia del tempo che passa e un pensiero detto e poi ritirato. Erano belli.
Poi, subito dopo la fine della canzone, una telefonata di auguri di pasqua di un amico, uno che passa da queste bande in silenzio come fanno in molti e che mi ha detto hai la strana capacità di rimanere incollato alle tue emozioni e di saperle raccontare. Io ero alla finestra e fuori cercavo di capire che tempo avrebbe finalmente fatto e sono rimasto lì, appeso col mento un po’ scosso a sentire quella frase che mi rimbombava in testa. Grazie F.
Il collegamento con le proprie emozioni è spesso un cortocircuito, qualcosa che ti porta a stare attaccato a parti di te che vorresti seppellire e a parti di te che vorresti raccontare in modo uguale, senza poter scegliere. E spesso è qualcosa che fa stare profondamente male o profondamente bene, senza vie di mezzo.
È qualcosa che assomiglia a quella canzone e che ho collegato in modo stretto a quella canzone. Molto stretto. Quella canzone lì ha un legame molto stretto con quello che sono veramente e che sento dentro. Con quello che mi manca e con quello che ho. Con le mie parole e il mio modo di stare al mondo che non ho mai nascosto che sia strano, ma così è, che volete che vi dica?
Non ho occhi da gatto o da micio. Però I miei non sono male e sono la cosa che mi piace di più di me. Forse l’unica insieme a un fisico da ex atleta che insomma non si butta via. Ma soprattutto sono capace di guardare dentro di me e delle persone che amo. Di esserci per loro come sento di doverci essere, con tutto quello che ho da dare e delle volte anche di più. Di capire, di sopportare, di sentire, di tacere, di prendere per mano e aiutare a camminare, di sussurrare nelle orecchie e di urlare in faccia.
Tutto quello che sono. Tutto quello che le mie mani aperte sanno trattenere e tenere. Tutto quello che I miei occhi oggi troppo verdi sanno vedere e guardare.
Mi piacciono I miei occhi oggi.
E con quegli occhi guardo te.
Fuori è una strana giornata. Cerco i tuoi pensieri, sottili come una carezza, la carezza sul viso che voglio darti, adesso, mentre divori qualcosa – qualunque cosa – triturando la vita con I tuoi occhi socchiusi.
Buona pasqua.
Buona pasqua voce da nave pirata, da linea notturna, da fruscio di pensieri con cui scambiarsi qualcosa senza accorgersene, senza saperlo, solo sentendo che c’è.

@2:33:00 PM - permalink - 0 commenti



19 aprile 2003




il mio nome e' ayrton e faccio il pilota e corro veloce per la mia strada anche se non e' piu' la stessa strada anche se non e' piu' la stessa cosa anche se qui non ci sono piloti anche se qui non ci sono bandiere anche se qui non ci sono sigarette e birra che pagano per continuare per continuare poi che cosa per sponsorizzare in realta' che cosa e come uomo io ci ho messo degli anni a capire che la colpa era anche mia a capire che ero stato un poco anch'io e ho capito che era tutto finto ho capito che un vincitore vale quanto un vinto ho capito che la gente amava me potevo fare qualcosa dovevo cambiare qualcosa e ho deciso una notte di maggio in una terra di sognatori ho deciso che toccava forse a me e ho capito che dio mi aveva dato il potere di far tornare indietro il mondo rimbalzando nella curva insieme a me mi ha detto "chiudi gli occhi e riposa" e io ho chiuso gli occhi il mio nome e' ayrton e faccio il pilota e corro veloce per la mia strada anche se non e' piu' la stessa strada anche se non e' piu' la stessa cosa anche se qui non ci sono piloti anche se qui non ci sono bandiere anche se forse non e' servito a niente tanto il circo cambiera' citta' tu mi hai detto "chiudi gli occhi e riposa" e io adesso chiudo gli occhi..........

@12:14:00 AM - permalink - 0 commenti



18 aprile 2003




Playlist. parole d'altrri per pensieri miei. Va mo là.

Only us Only us Only us It wasn't in the words that kept sticking in their throats It wasn't with the angels in their quilted coats These battered wings still kick up dust Seduced by the noise and the bright things that glisten I knew all the time I should shut up and listen And I'm finding my way home from the great escape The further on I go, oh the less I know I can find only us breathing Only us sleeping Only us dreaming Only us I hear you calling me Yes I hear you calling me Home from the reat escape Yes I can read you loud and clear The further on I go, oh the less I know Friend or foe, there's only us The further on I go, oh the less I know I can find only us breathing Only us sleeping Only dreaming Only us, only us I'm coming home again, home again And I hear you calling me home again I am coming home again Only us

moving down the fuselage toward the open door catch you looking down outside to see what lies ahead one by one you watch them fall fall through cloud one by one
you watch them fall no idea where they’re going but down where they’ve gone where they’ve gone watching as the sun goes down i sit inside this plane notice how the city lights are like the nerves inside the brain one by one they’re going out you watch them dim one by one you watch them fall and wonder where they’re falling to

Peter Gabriel





@9:47:00 PM - permalink - 0 commenti






Oggi nevica. Ne ho avute notizie sicure dalla radio, un secondo fa.
Proprio mentre scrivo, l'onorevol-cavalier-presidente-princip Silvio I di Macherio sta rebndeno testimonianza spontanea al processo Imi-Sir.
Adesso. Seduto là.
Lo ha detto RMC proprio or ora.
Sto cercando di immaginarmelo seduto in mezzo al plotone di avvocati che parla. Lì, nel tribunale col suo amico Cesare Boxer.
In quel covo di comunisti forcaioli.
Sì, sto cercando di immaginarmelo.
L'unico sospetto che ho è sull'aggettivo spontaneo.
Ci sono voluti mesi perchè si decidesse. Come spontaneità non è mica male...

@10:06:00 AM - permalink - 0 commenti






Ci sono cose che mi fanno paura.
Pare che entrerà in vigore una legge che penalizza la tossicodipendenza.
Pare che le pene per chi si droga saranno amministrative. Roba tipo il ritiro della patente o del passaporto o del permesso di soggiorno - ah ecco…- e non detentive.
Pare anche che non esisterà più la istinzione fra droga pesante e droga leggera, fra lo spinello e il buco.
Mi congratulo davvero. Ma non per non capire la differenza che passa fra una canna e una pera, ma per l’idea in sé. Mi congratulo perché ci sono persone che hanno un’idea talmente elevata dei problemi della nostra società da riuscire a ridurre tutto a una sordida catalogazione di pene.
Mi congratulo perché non si capisce ancora che il problema non è stabilire una quantità minima tollerabile per l’uso personale, ma capire cosa c’è dietro al problema. O forse non volerlo capire. Perché se la droga è un business per chi la vende, succede che lo sia anche per chi la cura.
C’è differenza fra una canna e una tirata di coca. Credetemi. C’è differenza fra una canna e una tirata di eroina. La stessa differenza che c’è fra guardare dentro un caleidoscopio e fare un giro sulle montagne russe. E chi questa differenza non la capisce allora non la può curare.
Non ci si droga perché è carino. Non ci si sfinisce nel corpo e nella mente perché si ha desiderio di combattere la noia. Non funziona così. Ci sono dei limiti che non si raggiungono per curiosità, delle sensazioni che non si cercano solo per vedere che effetto fa vedere la luce del sole mentre fuori piove e fa buio.
E togliere il passaporto a un drogato o la patente o chissà cosa non serve a evitare di fargli rubare dei soldi dal portafoglio della mamma per pagare lo stronzo di spacciatore o di stare fermo a un angolo di strada ad aspettare qualcuno che gli dia un po’ di euro in cambio di una pompa. Non serve. Non serve nemmeno a far capire a uno sbarbo qualunque che cosa significa infilarsi un ago in vena o una polvere bianca nel naso o una pastiglia colorata in bocca. O a dargli la forza di venirne fuori, sudando sangue nel vero senso della parola per potersi di nuovo guardare allo specchio.
Non serve a un cazzo. I mali della società sono sottili come la luce che ti fa male agli occhi quando hai l’influenza e tagliano come le pagine dei libri di scuola, quelli nuovi, che ti ritrovi a sanguinare senza nemmeno sapere com’è successo.
Chiudere gli occhi è facile. Far finta di niente e bastonare è forse il metodo che certa gente usava in piazza, quando era giovane.
Ma non serve a un cazzo.
Demonizzare qualcosa non lo rende più spaventoso e non rende più deboli i demoni veri.
E a tutti quelli nella compagnia del nano che hanno avuto questa bella pensata di legge consiglio uno spinello di quelli giusti.
L’unico dubbio che mi viene è che egocentrici, presuntuosi e chiusi come sono non lo passerebbero mai al loro vicino per una tirata.

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17 aprile 2003




Il tuo lavoro è sempre uno splendore e il mio è sempre una merda.
Quello che fai tu è sempre eprfetto e necessario, quello che faccio io inutile e sostituibile.
Tu sei il più bel fico del bigoncio e io invece l'ultimo coglione sulla faccia della Terra.
Tu sei bravo e bello e intelligente e io sono invece un emerito cretino.
Tu devi essere capito perchè sei stanco e io invece non posso nemmeno essere incazzato per come ti comporti.
Perchè tanto a te è tutto dovuto. Perchè tanto a te è tutto necessario. Perchè tanto l'altro giorno che non era chissà cosa, solo il mio compleanno, hai aspettato le quattro del pomeriggio per farmi gli auguri. Perchè una telefonata era difficile farla alla mattina, no?
Perchè io devo essere sempre pronto e devo stare esattamente a quello che dici te, come e dove dici te.
Perchè tanto una bella dose di merda da scaricare ce l'hai sempr e ci riesci sempre a farmni sentire inutile e stupido. A farmi davvero sentire una eprsona non necessaria, una persona trasparente, uno verso cui non è giusto provare sentimenti. Perchè non li merita.
Ci sei sempre riuscito a farmi sentire così e mi odio perchè riesci a farmi sentire così. Perchè non sei capace di sopportare da solo le tue insicurezze e le tue paure e devi farle sopportare a me.
E' tutta la vita che fai così e hai ottenuto solo che mi nascondessi sempre di più. Al mondo e a te. Te che non sai nemmeno cosa mi passa per la testa e cosa voglio e cos sono, perchè tutto quello che sai di me lo immagini o te lo hanno raccontato gli altri. te che non sai nemmeno di cosa abbia paura e di cosa abbia voglia, cosa siano i miei desideri e cosa sia quello che voglio per la mia vita, nella mia vita, della mia vita. Perchè hai preferito congelare tutto, compreso te stesso e il tuo rapporto con me.
Con me che non sai nemmeno chi sono. Con me che l'unica cosa pratica che mi hai insegnato nella vita è stata che per sopravvivere a tutto quello che non era stretto necessario materiale dovevo arrangiarmi da solo. Perchè non mi avresti mai aiutato o capito.
Eppure l'amore non è una racchetta nuova o un paio di scarpe quando ne hai bisogno e sentirsi vicino a qualcuno non è urlargli dietro quando perde una partita solo perchè non sei capace tu di sopportare che abbia perso.
Tu non sai niente di me. Continui a non volere sapere niente di me e a giudicarmi. Senza conoscermi e senza volerlo fare.
E come sempre l'adulto della situazione sono e devo essere io. Io a dover sopportare tutto senza nemmeno fiatare, senza poter dire niente. Solo restare in silenzio, perchè sarebbe peggio.
E a chiudere tutte le porte e i canali per non fare entrare aria.
E poi mi chiedo ancora perchè, nella mia vita, abbia così fame di emozioni e di sincerità, così fame di passione e di calore, così fame di rapporti umani.
E perchè sia così triste, spesso, quando penso ai miei pensieri e quando penso e basta.
E la cosa che mi fa più rabbia è che tutto questo è solo tempo perso. Un inutile e lungo e silenzioso fiume di tempo perso di cui ci pentiremo tutti e due.
Quando un giorni comincerà a piovere e non resterà altro che prenderà acqua, sotto un cielo d'inverno, senza ombrello e senza un impermeabile abbastanzaa grosso che sappia asciugare tutte le lacrime mai spese.

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Sto leggendo Io uccido. Per uno che scrive le cose che scrivo io leggere una storia come quella è un dovere oltre che un piacere. In questo caso è anche una curiosità a cui ho resistito per un sacco di tempo.
Stanno venendo fuori un sacco di scrittori di gialli, polizieschi, noir in Italia. Sono abbastanza difficili da catalogare e in genere odio catalogare i generi letterari. Per come vedo le cose io i libri si dividono in belli e brutti e la divisione noir, poliziesco, thriller o tutte le sottocategorie che stanno dentro la grande famiglia del gialli mi sembra piuttosto inutile.
Non so dove sta Faletti. Forse non in un libro italiano. Assomiglia un po' a quei gialli tutti uguali che arrivano dagli Stati Uniti. Però ha qualcosa in più. Credo che sia la sincerità.
E leggendo Faletti e Carlotto e Lucarelli - Almost blue resta il mio preferito in assoluto - e Fois e Baldini e tanti altri, mi viene da pensare che in fondo a tutto c'è una strana vena di tristezza e di malinconia. Come se scrivere storie di mistero fosse l'esplosione necessaria ad affrontare la propria vita e la propria tristezza.
Un mio amico che ho molto invidiato ha avuto la fortuna di conoscere Stephen King. E pare che funzioni anche per lui.
Non so. Sono cose che trapelano nei personaggi e nelle descrizioni del mondo, qualcosa che viene fuori, che scivola, che cola, come un pensiero lontano che però c'è, resta a fare da sottofondo.
Scrivere, in fondo, è l'occupazione più solitaria del mondo.
Come inventare e non c'è niente di più bello che inventare in due, guardandosi in faccia o lasciando che le voci si guardino in faccia.
Scrivere fa terribilmente male in fondo alle pareti del cuore, ma è anche la cura migliore che conosca. Perchè ti aiuta a conoscere come sei fatto, come sei fatto dentro, davvero.
E scrivere da soli non si può. Perchè assomiglia a vivere.
Ci vuole una voce, una voce preferita, un lettore o, nel mio caso, una Lettrice che è anche Autrice.
Autrice delle mie mani che battono sui tasti in questo posto. E Autrice di questo posto.
E adesso che fa un po' più buio è a te che mando queste lettere.
A te che conosci tutte le mie storie.
E che leggendole sono sicuro che riconosci te e i tuoi pensieri.
E' primavera.

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Cado.
Ci sono giorni in cui mi sveglio con le orecchie dritte come i mici. Non come il mio micio che quello è bolso, anche se colpisce in camuffa. Ma come un presentimento o un dolore o una strana sensazione alla base del collo. Una specie di puntura locale, qualcosa che assomiglia alla strana sensazione che si prova quando qualcuno ti fissa da lontano.
Delle volte mi sveglio così. Con i pensieri scompigliati come i capelli.
Forse sono solo fatto un po' strano. Forse sento delle cose e non lo so o non so come si chiamano o come corrono nella mia testa.
Forse.
Forse è la parola che mi scorre sotto pelle oggi.
E la sento che scorre come il personaggio di un libro di qualche anno fa.
Solo che io non uccido nessuno per prenderne l'identità. Faccio già fatica a vivere la mia.

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I nomi giocano strani scherzi.
Nel giorno in cui gli americani trovano Abu Abbas è di un altro Abbas che mi viene voglia di scrivere. Di un’altra storia.
Le storie di guerra, di qualunque guerra, sono strane. Perché nascondono un po’ tutto, un po’ tutto quello che siamo. Nel bene e nel male.
L’Abbas di cui voglio parlare di nome si chiama Alì. Non ha ucciso nessuno, non ha istigato nessun crimine efferato e violento. Perché l’Alì di cui voglio parlare è un bambino di 12 anni. Alì stava dormendo, il 6 aprile. E qualcuno ha bussato all’uscio di casa sua.
Era un missile. Forse uno di quelli un po’ idioti, con un neurone di meno, il gps un po’ fuori fase. Forse programmato da uno distratto. Chi lo sa.
Però era un missile. E ha fatto il suo dovere di missile.
Uccidendo sua madre incinta di cinque mesi, suo padre, suo fratello, gli zii. E strappandogli di netto le braccia. Tutte e due. Una all’altezza della spalla e l’altra a metà del bicipite.
La vita, spesso, è la peggiore troia che uno possa incontrare sulla sua strada. Non lascia spazio per niente. Stai dormendo, cazzo, hai dodici anni. Sei in guerra. Sei nato nel 1991, l’anno della prima guerra del Golfo. E adesso, mentre bombardano, hai 12 anni. E un missile ti cade in casa e riesce a sterminarti la vita, a portarti via tutto quello che è il tuo mondo conosciuto e a toglierti le braccia. Non ti colpisce il viso, il torace, le gambe. No. Per quanto possa essere urtionata la tua pelle, tutto il resto è lì. Il viso è quello di prima. Le gambe sono quelle di prima. Ma qualcosa che ha una mira incomprensibile riesce a fare quello slalom e quello scempio.
Alì è rimasto all’ospedale di Bagdad dal 6 aprile. E non deve essere stato un posto ameno.
Oggi lo hanno operato, a Kuwait City. A guerra finita, a bocce ferme.
Ho sentito prima un giornalista dargli un in bocca al lupo, in chiusrua di servizio.
E ho pensato.
Ho pensato che forse quel missile avrebbe potuto essere stupido fino in fondo e ucciderlo. Ho pensato che forse quella che si dice fortuna in realtà è una sfiga e che aprire gli occhi tutti i giorni, da qui a chissà a quale giorno, potrebbe essere una maledizione peggiore che rimanere ucciso, mentre dormiva, magari nel mezzo di un sogno felice su una vita che non avrà mai.
Questo ho pensato e mi vergogno un po’, perché augurare la morte a un bambino non mi fa stare bene. Pensare che per un bambino la vita potrebbe essere una disgrazia più grande, quella che lo costringe a non dimenticare mai, beh, non è un gran pensiero.
E pensare in nome di cosa è stato fatto tutto questo a Alì e ai tanti come Alì di cui non sappiamo il nome, beh mi fa solo vomitare.
In traduzuone dal bolognese, mia nonna avrebbe detto: che i soldi che avete preso vi vadano tutte in medicine.
A me viene da aggiungere e che le medicine non bastino.

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16 aprile 2003




Che serata strana. A metà strada fra primavera e inverno, tipo lana fuori e cotone sulla pelle che ai miei tempi andava da matti.
Il gatto non c'è quasi stato e sono preda di una strana forma di creatività compulsiva che mi schiena. Troppe parole mi si mescolano in testa, troppe voci, troppe storie, una dentro l'altra dentro l'altra. Ho pensato tutto il pomeriggio a quello che mi ha detto N. al telefono.
Credo che dovrei riuscire a fidarmi degli altri. Ma ho paura. Paura di mettere male un piede e ogni volta che allungo una mano poi finisco per tagliarmela da solo senza sapere cosa c'è di là. Finisce sempre così con tutti. Con tutti tranne che con una persona. Lì, solo lì, mi rendo conto che forse qualcosa di buono dentro c'è. Dentro di me, intendo.
Leggo un post vecchio di tre ore e mi sembra che venga dalla vita di un altro, dagli umori di un altro, dai pensieri di un altro.
E allora abbasso gli occhi, penso piano, immagino una sera che deve arrivare, guardo i fiori bianchi dell'albero fuori dalla finestra, come in un film di Kitano.
Guardo dentro di me e vedo brutta roba.
Guardo i tuoi pensieri, alla fine di questa giornata di aprile e cerco di sentire che profumo hanno, che colore hanno.
Come un palloncino colorato che ascolto, tocco, sfioro, cerco, assaggio. Un aeroplanino di carta che galleggia leggero nell'aria. Su cui vorrei salire e vedere dove va, dove mi porta, dove andiamo.
Un bacio per te.

@6:55:00 PM - permalink - 0 commenti






Bin LAden dev'essere scappato su una VW Beetle blu elettrico.
Dev'essere per forza così. Perchè fra ieri sera e oggi mi hanno già fermato 2 volte.
Ieri sera mancava solo la rettoscopia e poi mi avevano fatto un checkup completo.
Oggi appena uscito dal commercialista, paletta! Evvai!
Sono sceso con la patente in mano e le palle per terra e ho spiegato che ormai avevo un abbonamento con loro.
Da oggi espongo un cartello, di fianco all'assicurazione. Pericoloso criminale offresi per posto di blocco. Tempo da perdere garantito.
O forse è uno di quelli che hanno scritto a Sorrisi che ha scoperto che sono un pericolosissimo comunista.
Se è così da domani giro con la tshirt del Che.

@4:01:00 PM - permalink - 0 commenti






lei me l'ha ricordata.
Io la caccio qui. Assolutamente bellissima. E lui è uno scrittore vero, oltre che un cantante.
lei Io credo che valga anche durante, dopo e sempre.

If you want a lover I'll do anything you ask me to And if you want another kind of love I'll wear a mask for you If you want a partner Take my hand Or if you want to trike me down in anger Here I stand I'm your man If you want a boxer I will step into the ring for you And if you want a doctor I'll examine every inch of you If you want a driver Climb inside Or if you want to take me for a ride You know you can I'm your man Ah, the moon's too bright The chain's too tight The beast won't go to sleep I've been running through these promises to you That I made and I could not keep Ah but a man never got a woman back Not by begging on his knees Or I'd crawl to you baby And I'd fall at your feet And I'd howl at your beauty Like a dog in heat And I'd claw at your heart And I'd tear at your sheet I'd say please, please I'm your man And if you've got to sleep A moment on the road I will steer for you And if you want to work the street alone I'll disappear for you If you want a father for your child Or only want to walk with me a while Across the sand I'm your man If you want a lover I'll do anything you ask me to And if you want another kind of love I'll wear a mask for you

Leonard Cohen



@2:11:00 PM - permalink - 0 commenti






Compro Sorrisi&Canzoni.
Lo so, ognuno ha le sue turbe, i suoi difetti, i suoi scheletri nell’armadio. Chi è feticista dei piedi, chi lo fa solo se la sua donna si mette i baffi finti e chi compra Sorrisi&canzoni. SB, comunque, dato che il giornale è suo considera il reato depenalizzabile.
Ad ogni modo ci sono due lettere alla redazione molto edificanti. Edificanti perché sono state spedite. Ma molto più edificanti perché si è deciso di pubblicarle.
Antefatto.
La settimana scorsa, Pietro Sermonti, il nuovo medico in famiglia in un’intervista all’amena testata aveva dichiarato di avere due passioni: la Juve 8ahimè) e il comunismo.
Una delle due lettere avverte la redazione di S&C di fare più attenzione a quello che pubblicano. Perché non vorrei che qualcun altro pensasse che un’ideologia che ha provocato 100milioni di morti possa essere vissuta come una passione. Però. L’ideologia rpeventiva. Sicuramente la dichiarazione di Sermonti ha mosso milioni di voti e di pensieri verso il comunismo in Italia. A proposito se qualcuno l’ha visto – il comusmo – me lo faccia sapere. Loc erco da un po’.
La seconda lettera però è ancora più bella.
Un tale dice di voler far sapere a Sermonti che dopo aver saputo della sua militanza politica non vedrà più il telefilm, malgrado la rpesenza di banfi, che invece vota a destra. Interessante proposito. Sermonti ne sarà onorato, credo.
E a questo punto mi viene da pensare che sui film, accanto al nome del personaggio si debba scrivere il nome dell’ultimo partito che ha votato. Si potrebbe così consentire allo spettatore di vedere solo le scene in cui appaiono militanti della fazione gradita. A scapito della trama, s’intende. Ma a beneficio della salute di individui come gli autori delle due lettere.
O, soprattutto, dei redattori che hanno deciso di pubblicarle. Un raro esmepio di giornalismo illuminato in un paese decisamente rabbuiato dai riflettori del nano.
A scanso di equivoci, comunque, ribadisco che voto Ds, che non ho nessuna simpatie berlusconiane e che tutte le righe che scrivo e ho scritto sono in totale disaccordo con la politica della maggioranza di governo attuale.
Questo perché chi mi legge possa saltarmi, se vuole, in toto. Senza decidere se una frase o un’altra fra quelle che scrivo corrispondono alle sue idee politiche.
Tutto questo per la precisione.

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15 aprile 2003




Mi sono chiesto cosa sentano i gatti che noi non sentiamo. Se abbiamo una specie si strano senso che fa capire certe cose al volo, senza che noi umani si possa raccontarle.
Lo dico perchè quel gran fetente del micio Ciccio è stato appollaiato tutto il giorno sulla mia spalla. Ora, a parte procurarmi un dolore feroce dovuta alla mole che si porta a spasso, è stato bello. Bello perchè i gatti sembrano toccarti dentro.
Con gli occhi.
Come le donne.
Forse per questo adoro i gatti. Il mio gatto.
Che anche se è un maschio riproduttore incallito, è assolutamente come te.
Morbido e ruvido. Con le unghie di fuori e la pelle morbida.
E i pensieri sempre in movimento.
Come i miei, alla fine di questa giornata di primavera. Che forse fa un po' freddo e forse no.
E in cui accarezzo il micio pensando che siano i tuoi pensieri, i tuoi occhi, il tuo respiro.

@6:26:00 PM - permalink - 0 commenti






E' il mio compleanno da un'ora e dirlo qui suona un po' autocelebrativo, ma chi se ne frega.
E' il mio compleanno da un'ora, ma questa non è per me.
E' per te, scoperte per caso, anzi riscoperte, frugando in un vecchio libro, cercando vecchi appunti.
Eccole qui.

Per il mio cuore basta il tuo petto, per la tua libertà bastano le mie ali. Dalla mia bocca arriverà fino al cielo, ciò ch'era addormentato sulla tua anima.
In te è l'illusione di ogni giorno. Giungi come la rugiada alle corolle. Scavi l'orizzonte con la tua assenza. Eternamente in fuga come l'onda.
Ho detto che cantavi nel vento come i pini e come gli alberi di nave. Com'essi sei alta e taciturna. E ti rattristi d'improvviso, come un viaggio.
Accogliente come una vecchia strada. Ti popolano echi e voci nostalgiche. mi son svegliato e a volte emigrano e fuggono uccelli che dormivano nella tua anima.

Nuda sei semplice come una delle tue mani, liscia, terrestre, minima, rotonda, trasparente, hai linee di luna, strade di mela, nuda sei sottile come il grano nudo.
Nuda sei azzurra come la notte a Cuba, hai rampicanti e stelle nei tuoi capelli, nuda sei enorme e gialla come l'estate in una chiesa d'oro.
Nuda sei piccola come una delle tue unghie, curva, sottile, rosea finché nasce il giorno e t'addentri nel sotterraneo del mondo.
come in una lunga galleria di vestiti e di lavori: la tua chiarezza si spegne, si veste, si sfoglia e di nuovo torna a essere una mano nuda.

Pablo Neruda






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14 aprile 2003




Avvertenze e modalità d’uso
È un post ad personam. Privato e personale. Denso e melenso.
Astenersi perditempo.


Sto pensando alle parole.
Sto pensando a quello che vogliono dire e a come vengono fuori. Sto pensando che il tono delle parole, l’inflessione, la posizione delle sillabe, la vocee che sale e scende e non resta sempre piatta e dritta, beh, qualcosa vogliono dire. La voce – e le parole – non sono fatte per essere atone, perché le parole sono emozione.
È bello ascoltare le tue, perché ti assomigliano. Posso capire come stai anche solo dal tono della voce, dal modo in cui dici pronto o in cui ti incazzi con l’idiometra di turno che tenta di passarti a destra al solito incrocio. Basta ascoltare se il tono sale, rallenta, si ferma per un attimo e poi prosegue. Quello è il tono delle giornate buone. Come una pallina che sale su una piccola salita e resta appesa un momento prima di continuare a correre. Come una nuvoletta di profumo che esce dal vapos e poi, piano piano avvolge lo spazio che le sta intorno.
E lo stesso tono ce l’hai quando scrivi. Che non ho letto tante cose, ma hanno lo stesso tono della voce. Ci sono quelle tristi, quelle che si piegano un po’ all’ingiù, come la testa dei tulipani che non ce la fanno a tirare avanti. E tu sembri un po’ un tulipano, con quei colori splendidi e quella testa alta che sembra guardare il mondo. Un bellissimo tulipano fragile fragile eppure fortissimo.
Poi ci sono le cose buffe e scanzonate, divertenti, quelle che sono proprio come sei te. Quelle che vengono fuori di pancia e che assomigliano all’odore del pane e alle corse dei bambini in cucina mentre la mamma fa la sfoglia e non è poi così male impiastricciarsi di farina e ciuffare il ripieno. Sono come i gesti di Benigni, quelle cose lì. Buffe a guardarle eppure semplici e sincere. E se ci guardi sotto, se ci pensi un momento sopra, allora ti accorgi che c’è qualcosa dietro.
E poi c’è il silenzio. Che non ha un colore e non ha nemmeno un tono. È solo grigio. Ma non come il grigio che è un colore. Ma come il grigio di un pensiero triste. Qualcosa di opaco che avvolge le mani e gli occhi. Qualcosa che assomiglia al velo della cataratta sugli occhi della mia bisnonna. Un po’ come se i tuoi pensieri non si facessero vedere. Un po’ come se tutto restasse nascosto. Un colore che conosci solo tu, che è solo tuo. E che delle volte non è nemmeno un colore.
E invece la tua voce è fatta di colori e non sono mai bianchi o neri.
E la tua voce è fatta di desideri, quando assomiglia a un filo sottile di cui non cogli i movimenti e quando è una sfumatura di colore che allunga le vocali, le stira, come i bimbi la mattina presto.
È così che funziona e se ci pensi, anche solo un momento, anche solo un attimo prima di dargliela su, allora ti accorgi che è vero.
Perché la tua voce è fatta di te e le tue parole sono fatte di voce.
Anche quelle che scrivi e che spero vorrai scrivere con me.
Anche quelle che pensi e che un giorno verranno fuori.
Come le dita sottili dei bambini che si aggrappano alle mani dei grandi per attraversare la strada.

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La vita è fatta di punti di vista. Lo so che assomiglia alla pubblicità del magnum, ma è così.
Ci pensavo ieri sera mentre guardavo il servizio su Bologna Juve.
Ho pensato che se le aglie fossero state invertite tutti sarebbero qui a parlare di un regalo della Juve. Forse di un suicidio della Juve, che si sa con i termini i giornalisti sportivi non ci vanno leggeri. Invece grande coraggio, grandi palle, grande forza di volontà.
Ho pensato che se il gnocco di Locatelli lo avesse fatto Del Piero o Baggio o Totti, avrebbe fatto il giro del mondo. Invece niente.
Ho pensato che Cruz ha fatto gli stessi goal di Baggio, uno in più di Recoba e Nedved – che ne hanno fatti quanto Signori -, due in più di Montella e tre in più di Trezeguet. È sorprendente anche per me, ma è così. E nessuno lo dice.
Ho pensato che ogni tanto ci vorrebbe un po’ di umiltà e di rispetto per l’avversario. Che è la prima cosa che ho imparato giocando a uno sport che per molti versi è ancora civile, come il tennis. Che vedere il signor Bettega che fa il suo numero in tribuna dopo il pareggio e sentire il signor Moggi che dice che è dispiaciuto perché potevano vincere, beh, mi fa un po’ incazzare. Da queste parti dicono ringrazi che t’è parzè!.
E ho pensato, per l’ennesima volta, che il calcio comincia a farmi schifo.
Lui e tutto il circo che gli gira intorno.
Per sfogare i malumori di tutti i giorni, credo basti farsi una bella corsetta.
O guardarsi dentro. Ma veramente.

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13 aprile 2003




La Siria ha armi chimiche, dice George l'Iraqeno e se non è una promessa allora è una minaccia.
Spero che nessuno dell'amministrazione Bush sia passato stasera a prendere l'ascensore a casa mia.
Con la scorta di cavolfiore bollito che qualcuno deve aver portato in casa rischiamo i B52 sulle teste già da domani mattina.

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Dev’essere in atto la rivolta dei server. Blogspot giù nei fondi fondi e niente weblog. Né mio né di altri. E giù anche il server del cliente e quindi niente lavoro. Va mo là.
D’altra parte avevo già deciso di scrivere oggi, guardando fuori il sole che vorrebbe assomigliare alla primavera e guardando dentro un po’ della mia tristezza che non so da dove arriva. Ma c’è. Come l’allegria.
E così ho ascoltato questa canzone degli Stones ho tirato le tende e guardato fuori un cielo dalmata e chiaro come la pelle di un neonato e ho buttato giù pensieri.
Mi sono chiesto se cominciare la giornata in un certo modo poi influenzi i tuoi pensieri. E ho pensato che sì, influenza. Ho anche pensato che non so come funziona la mia creatività. E dire che è mia e dovrei saperlo, ma proprio non lo so. Come non so tante cose di me. Perché ogni tanto ho delle sensazioni talmente forti sulle cose da considerarle verità. Perché ci sono cose che sento forte forte e altre di cui mi dimentico senza nemmeno sapere il motivo. Perché mi vengono in mente storie così storte quando invece la mia vita è molto normale.
Perché sono così tagliato a metà. Come le caramelle frizzine. Per trovare qualcosa di diverso bisogna spaccarle a metà, poi però ci rimani male, ti sorprendi. Chissà, magari sono una caramella frizzina anch’io.
Mentre cerco di capirlo ricomincio a scrivere.
Fuori c’è sempre il sole.
Chissà come vengono fuori i pensieri con un imbuto in testa.
Magari me lo fari sapere. Anche solo con un pensiero.
tanto i miei sono tutti lì con te.

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La mia prof di mate al liceo dava dei compiti astrusi, con domande astruse che spesso non capiva nemmeno lei. La mia prof di mate non si accontentava di fare mate, ma di sbizzarriva in fisica a pur anche in informatica. Eravamo classe sprimentale e quindi, giustamente, lei sperimentava. Problemi touring computabili, la macchina di Von Neumann, Pascal (l’uomo) e la pascalina, Pascal (il linguaggio). Tutto questo nel lontano 1985. A spanne.
La mia prof di mate è stata per almeno cinque anni l’individuo più odiato di tutte le galassie. Più anche si Saddam Hussein da parte di Bush.
La odiavamo perché con perversa tenacia riusciva a fare in modo che ci fottessimo con le nostre stesse mani. Un giorno abbiamo chiesto se fosse possibile avere interrogazioni programmate. Lei ci divise in tre gruppi e ci intgerrogò, in gruppo, tutte le settimane. Una volta in fisica e una volta in mate. Alla lavagna avvenivano vere e proprie depoirtazioni di gruppo, dieci persone e un gesso. Tutti insieme appassionatamente.
La mia prof di mate non dava mai una risposta a un ragazzo. Lei faceva solo domande. Il sospetto era che non sapesse le risposte, ma si sa, la prof era lei. Se tu dicevi una cosa lei subito chiedeva a un altro se fosse giusta. E diventava un tiro al piccione.
La mia prof di mate insegnava fisica come un idraulico insegnerebbe botanica. A raglio. Le interrogazioni erano meraviglie di inventiva. Credo sia stato lì che ho imparato a risolvere i quesiti della Susy. perché la luna non cade sulla terra? chiese un giorno. Per fortuna! fu la risposta. Sono ancora qui che rido. Come si fa a riconoscere in quale emisfero sei se ti svegli chiuso in una stanza che non conosci, senza finestre, senza porte e solo con un lavandino?. Beh, se mi sveglio chiuso in una stanza senza porte e finestre sapere in che emisfero è diventa decisamente un problema secondario. Per lei evidentemente non lo era.
Non so perché quella donna magra come un chiodo arrugginito mi sia venuta in mente oggi. Forse perché parlando di paura e scrivendo di paura mi viene in mente spesso che si comportasse così perché era lei a essere spaventata da noi.
Spesso la paura fa brutti scherzi.
Ongi tanto, credo, mi sarebbe piaciuto vederla sorridere. Ma davvero, con gli occhi.
Per vedere che effetto faceva. Per vedere se, anche solo per un attimo, potevo vedere com’era fatta dentro.

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12 aprile 2003




Io questa qui la adoro. Lei, proprio. Non solo la canzone.
Però queste due qui sono proprio splendenti. Non splendide. Splendenti.

You look like a perfect fit, For a girl in need of eternal care. But can you save me Come on and save me If you could save me, From the ranks of the freaks, Who suspect they could never love anyone. 'Cause I can tell you know what it's like. A long farewell... of the hunger strike. But can you save me Come on and save me If you could save me,
From the ranks of the freaks, Who suspect they could never love anyone. You struck me dumb, Like radium Like Peter Pan, or Superman, You have come to save me. Come on and save me If you could save me, From the ranks of the freaks, Who suspect they could never love anyone, Except the freaks, Who suspect they could never love anyone, But the freaks, Who suspect they could never love anyone. Come on and save me Why don't you save me If you could save me, From the ranks of the freaks, Who suspect they could ever love anyone, Except the freaks, Who suspect they could never love anyone, Except the freaks, Who could never love anyone.


It's not What you thought When you first began it You got What you want Now you can hardly stand it though, By now you know It's not going to stop It's not going to stop It's not going to stop 'Til you wise up You're sure There's a cure And you have finally found it You think One drink Will shrink you 'til you're underground And living down But it's not going to stop It's not going to stop It's not going to stop 'Til you wise up Prepare a list of what you need Before you sign away the deed 'Cause it's not going to stop It's not going to stop It's not going to stop 'Til you wise up No, it's not going to stop 'Til you wise up No, it's not going to stop So just...give up








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Prima ho preso una pizza a domicilio.
L’ho presa nel solito posto e me l’ha portata il solito ragazzo.
Avrà più o meno 25 anni e dall’aspetto credo che sia indiano. Credo anche che non sia da molto in Italia perché fa fatica a capirti.
L’ho pagato lasciandogli quei quattro spicci di mancia che facevano pari il conto. Lui sorridendo, con ancora il casco della moto in testa mi ha chiesto se parlavo inglese e poi che lavoro faccio.
sono ingegnere gli ho detto e di certo con la maglietta di Copperfield, i pantaloni della tuta, spettinato e barbone non facevo onore alla categoria.
Lui ha sorriso ancora di più e mi ha risposto io sono laureato in matematica.
Non ho saputo far altro che fargli i complimenti e ho pensato a quanta gente della sua età, nata da questa parte del mondo, con una laurea sulle spalle, porterebbe pizze a domicilio. Mio cugino che ha 18 anni lo fa. Ma non è contento.
Beh, quel ragazzo che non so nemmeno come si chiama e che mi ha lasciato col mento penzoloni e una sottile vergogna per la mia lenta e tranquilla laurea presa giocando a tennis e scrivendo, aveva gli occhi di chi sa lottare e di chi sa che un pezzo di carta non ti rende un uomo.
E ho pensato che ci sono molti italiani con la capacità solo di fare consegne a domicilio che invece stanno in posti molto più importanti, più tranquilli, a fare lavori che non li costringono a portare il culo a spasso in moto, alle otto di sera, per consegnare una pizza a gente come me che non ha voglia di farsi da mangiare o di uscire per andarsela a prendere da solo.

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Da qua su non capisco se piove. Non che me ne freghi qualcosa, intendiamoci.
Mattina – e pomeriggio pure – passata a cercare di capire come mettere in piedi una storia. Avrei anche dovuto lavorare, ma il server era gloriosamente giù. Per mia fortuna.
Ho pensato a me. Difficile che lo faccia. Di solito sono in fondo alla mia lista dei desideri.
Sono uscito, ho fatto un giro, l’inevitabile tappa alla Feltrinelli. E questa volta non ho resistito a comprare Faletti. Non ho razzismi per quello che riguarda le parole. Anni fa mi sono letto anche mein kampf quindi penso proprio di averle provate tutte.
Ho buttato giù un nuovo inizio e tentato di nuovo di finire un livello a Alien vs Predator, finendo distrutto sul più bello.
Ho fatto un giro sotto la pioggia del primo pomeriggio a mettere fiori e a sentire parole. Le mie, dal fondo.
Tornando a casa, mentre scrivevo un messaggio, ho fatto un giro in maccina nella campagna sporca di pioggia, immaginando una storia, ma soprattutto pensando. Il cielo era scuro all’orizzonte, come il fondo che si deposita nelle bottigle di rosso. Una specie di sedimento di un temporale che non arriva e che sembra colar, come una ferita troppo piena o un pensiero che non riesce a uscire.

I tuoi pensieri, sono come il tempo.
Ci sono giorni pieni di nuvole, pieni di un grigio scuro che si apre in tuoni improvvisi, lunghi e duri. Che si chiude in nuvole ferme, immobili, che appesantiscono la testa, il collo. Che premono alla base della nuca.
Ci sono giorni di primavera con risate sottili e un sorriso che sembra un fiore in questa stagione. Sboccia che nemmeno te ne accorgi. Arriva ed è già lì, in un secondo. Come le viole sul prato di casa mia, che chissà quando sono spuntate.
Ci sono giorni freddi. Chiusi nel silenzio delle notti di gennaio. Giorni in cui solo aprire la bocca fa venire freddo ai polmoni, fa gelare le vene nei polsi. Giorni in cui ci sono talmente tante paure, talmente tanti pensieri in movimento, che tutto sembra fermo e immobile.
E ci sono giorni di sole, che sei una persona solare e calda e accogliente in un modo tutto emiliano, che non potresti essere di un posto diverso. Non potresti essere nata in un posto diverso da questa strana città di stelle e di merda che è tutto e il contrario di tutto.
In quei giorni, in quei giorni di sole, in quelli in cui ti piace andare in giro a prendere semplicemente il bel tempo che ti scorre addosso, hai gli occhi che mi ricordo di averti visto in faccia la prima volta. Quando nemmeno sapevo chi eri. In quei giorni fai quasi male.
Però sei tu sempre, come una bambina che può essere tante cose, ma resta sempre lei. Maraglia e dura e con l’incredibile capacità di inventare nomi, nomignoli e vocaboli.
Mister Magoo mi si addice proprio. Non lo dico solo io.
Riesci a farmi ridere.
La pelle, i pensieri, le parole, il viso.
Gli occhi.
Buffa creatura a cui vanno, ora, tutti i miei pensieri.
Soppa…

@6:22:00 PM - permalink - 0 commenti



11 aprile 2003




Sto sorridendo. Almeno un po'.

@2:11:00 PM - permalink - 0 commenti






Scrivo messaggi della buonanotte perchè sono come le stelle.
Esistono, ci sono, lo sai.
Quando hai voglia di guardarli basta aprire la finestra.
E le vedi anche se fuori piove.
Ogni tanto, attaccata a una di quelle luci c'è un ricordo. Ogni tanto un desiderio. Ogni tanto una risata. Ogni tanto una persona.
Scrivo messaggi della buonanotte per questo.
Perchè c'è bisogno di luce.
E da qui, buonanotte a te.
O buongiorno. A seconda dei fusi.

@12:20:00 AM - permalink - 0 commenti






La mia è una famiglia molto anarchica.
Lo ricordavo ieri, cercando di snodare a uno sguardo che sento, i nodi di un albero genealogico piuttosto aggrovigliato.
Qualcuno la chiamerebbe famiglia allargata e sicuramente quello che mi scorre dentro è il sangue di gente che ha avuto coraggio.

La mia è una famiglia di donne, una lunga linea di discendenza femminile che si allunga da un lato fino alla mia bisnonna, che nei giorni di sole di tanto tempo fa mi portava sopra rastignano a vedere i conigli. Una famiglia di donne, incredibilmente di donne, da tutte e due i lati. Di donne dalla parte di mia madre, lei con tutte quelle sorelle, lei con una madre bambina a cui somiglia come una goccia d’acqua in una giornata di sole. Donne emiliane nel vero senso edlla parola. Donne fragili, ma fortissime. Gente che sa stare controvento e prendersi a pioggia in faccia. Donne come mia nonna I., anche oggi che si è spenta la luce e tutto quello che vede sono solo poche ombre.

Donne come mia madre che non è mai stata piccola. Mia madre con una mamma di 17 anni nel 1940 e un padre di 21 partito per la guerra mentre lei non c’era ancora. Mia madre e le sue trecce, mia madre e i suoi capelli lunghi e mia madre che piange e che ride, che urla e che dorme, oggi con lo stesso silenzioso e coraggioso orgoglio di sempre.

Donne come mia nonna G., ruvida, dura, piena di spigoli come un solido geometrico. Eppure morbida, dentro, come un batuffolo di cotone abbandonato in una giornata di pioggia. Mi manca molto la sua faccia piena di rughe. Quella faccia che si addormentava col giornale in grembo. Mi manca molto la sua pelle bruciata dal sole e le sue lacrime di ex partigiana che potevam finalmente, zigare come la bambina che non aveva mai potuto essere. Mia nonna di quaranta chili che ha lottato contro tutto e contro la morte, sputandole in faccia per sei volte, prima di dargliela su. Mia nonna e il suo nome dietro lettere d’oro in un posto in cui ho finito per andare molto spesso.

Sono le donne che hanno fatto la differenza nella mia vita. Ci sono cresciuto in mezzo. Alle mie nonne e a mia madre. E forse questo mio modo di essere viene da loro. Forse rimpiango solo di non avere preso da loro quella bellezza brillante che hanno e che avevano tutte quante. E che forse mi porto a spasso solo negli occhi.
Ho un passato e un presente di una cattiveria insospettabile a cui tu non credi, ma che c’è ancora oggi. Sono piendo di rudezze trasmesse da G. e da lei a mio padre e di finti silenzi che nascondono dolori tremendi. Sono pieno di silenziosi segreti che ho avuto il coraggio di sputare fuori solo con te.

Ma so anche che, come loro, sono capace di regalare me stesso alle persone che amo. So che come loro sono un pezzo di pietra e che non mi spezzo. So che come loro sono capace di far ridere e di aprire le bracce e che se decido di dare non lo faccio per un motivo, ma perché lo sento.
E così sono orgoglioso di quelle donne. Orgoglioso di quello che mi hanno trasmesso. E di quello che mi hanno fatto diventare.

Anche se una di loro mi manca da matti.
Ti ho sognata nonna, stanotte. Mi guardavi. E sorridevi.
t’è fat ben mia hai detto. E non so a cosa ti riferivi. O forse sì.
Toccare il tuo nome, sentirlo sotto le dita, farlo lì, in quel corridoio, in quel momento, mi ha fatto un gran bene.
Raccontare di te mi fa un gran bene, qui e soprattutto a voce, a lei. E tu lo sai. Lo so che lo sai.
Vorrei solo che potessi vedermi, oggi. In questi giorni. Adesso.
E forse, finalmente, saresti orgogliosa di me.
Come non riesco sempre a essere io.

@12:07:00 AM - permalink - 0 commenti



10 aprile 2003




Però le cose passano più svelte.
Una volta mi sarei piantato per terra. Avrei infilato un bel paletto e mi ci sarei attaccato. Adesso non lo faccio più.
Adesso mi agito un po', magari sputo qualche lacrima di corsa e ho un po' di magone, magari inciampo o scivolo o sbatto le ginocchia per terra. Ma mi tiro in piedi. Arrancando forse. Ma riuscendo a raddrizzarmi. Non lo facevo mica.
Lo faccio da un po', da qualche tempo.
E anche se non sono proprio leggero, anche se non sono un peso piuma e ogni tanto è meglio se sto per i cazzacci miei, beh, adesso è molto meglio.

Adesso in casa fa un caldo disumano, un'escursione termica da deserto. Ho un po' di mal di capa e penso piano.
A tutto quello che è successo.
Atutte le parole che vorrei dire. Proprio tutte.
A tutte quelle che vorrei dirti.
Che sono tante. Piccole e grandi.
Per il momneot mi accontento di un pensiero. Quello che ti mando adesso.
E' piccolo e assomiglia a lei. Forse perchè quando sta bene e respira forte, fa un bel rumore.

@8:48:00 PM - permalink - 0 commenti






E adesso non riesco a lavorare.
Non riesco a pensare, a programmare. Non riesco.
Ho il pensiero da un'altra parte. E sulle orecchie di una micia.
E ho freddo.
Ma non è il clima.

@6:34:00 PM - permalink - 0 commenti






Ho un chiodo, dentro. E credevo di vaerlo buttato via. Di averlo accantonato. Di averlo messo in un angolo e cancellato.
E invece no.
Tu puoi chiudere con il passato, ma è il passato che non chiude con te.
Già. E così oggi è squillato quel fottuto telefono. Lo sapevo che non dovevo rispondere. Lo sapevo.
Grandissimo figlio di puttana.
Grandissimo figlio di puttana che non leggerai mai queste righe.
Hai già preso abbastanza. Hai già chiuso il cerchio. Hai già preso un pezzo di me. Hai già provato a rovinarmi la vita e ci sei quasi riuscito. Hai infilato un dubbio, un tarlo, un cazzo di fottutissimo baco che scavava, scavava, cercava uno spazio e cazzo ormai lo trovava. Hai già avuto il tuo momento di gloria e ora devi pagare. Tutto. Fino alla fine, senza nessuna speranza. Che per quelli come te la speranza non la voglio.
Per quelli come te la speranza è solo una fottuta parola da usare davanti alla gente. Da predicare davanti alla gente. E io ne ho le palle piene.
Per quelli come te la speranza deve essere solo quella di poter vedere il giorno dopo, l'ora dopo, il secondo dopo. E basta.
Per quelli come te, se Esistesse Davvero, ci sarebbe solo una conseguenza. Quella che hanno pagato e pagano senza colpa persone che non hanno fatto nulla.
Io a te l'ho augurato. Te lo dico di cuore che ti ho augurato di morire. E di morire stando male.
Molto male.
Io non so cos'è il perdono per te.
Io non ti perdonerò mai.
Per quello che hai fatto allora e per quello che hai fatto oggi.
Farmi piangere sotto la pioggia, chè Bologna ormai sta in Thailandia. Farmi piangere da solo, col gatto che mi guardava.
E farmi restare sulla difensiva in una telefonata che ho sperato di sentire e che è arrivata subito dopo la tua.
Forse a dimostrarmi che al mondo ci sono anche cose belle.
Che nel mio mondo ce n'è una, tutti i giorni e che posso sentirla nella voce. Anche quando è triste.

Vattene.

@6:16:00 PM - permalink - 0 commenti






Succedono molte cose.
Succede che piove, c’è un bel cielo grigio piombo, fa un freddo cane, il mio compleanno si avvicina.
Succede che un uomo piccolo di statura e di caratura dice che quelli come me amano le dittature e i dittatori e io mi faccio un sacco di domande. E a me viene in mente una battuta di De Niro in the untouchables. Un po’ perché il personaggio di Capone si adatta all’uomo in questione, un po’ per quelllo che dice: voglia Dio di farmi avere un po’ più di pietà di me stesso.
Succede che ho freddo addosso, ma una sensazione strana, piena, fra le mani e fra i pensieri. E i pensieri corrono, cazzo se corrono. E devo avere pazienza. Pazienza. Anche se vorrei.
Succede che sto ascoltando Aimee Mann e mi chiedo perché la conoscono quattro gatti e un cane zoppo. Io.
Succede che un uomo della radio mi ha detto una cosa in trasmissione e io non l’ho sentita. Mi avrai contagiato?
Succede che stamattina non riuscivo ad aprire posta e quando ci sono riuscito ho trovato ad aspettarmi una qualche mail di gente non d’accordo con la mia posizione sulla guerra. Gente che si è dimostrata pro guerra anche nel modo di scrivere. E li ringrazio perché hanno rafforzato le mie convinzioni.
Succede che si è rotto un ascensore e il decimo piano non è proprio dietro l’angolo.
Succede che ho cose da dirti, parole da dirti, storie da dirti.
Succede che spero di avere una firma accanto alla mia che scandaglia le mie parole e le tramuta in storie impastandole con la sua creatività.
Succede che dovrebbe arrivare la primavera e me la sento addosso e la vedo addosso agli altri, ma pare che non sia così.
Succede che ho ancora un po’ paura, ma si sa, quella mica se ne va in due secondi.
E succede che ogni tanto gioco a Alien vs Predator e ‘sti alieni mi fregano sempre, che palle.
E succede che piove, ma delle volte piove solo su mezzi pensieri, sulla parte di noi che resta attaccata alle suole del mondo.
Ma delle volte va bene lo stesso.

@2:27:00 PM - permalink - 0 commenti


 
 
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