28 aprile 2003




C’era una lettera strana nella rubrica di Augias oggi, su Repubblica.
Parlava di scrittura e mi ha fatto riflettere. Non mi sono ritrovato molto nei dubbi della donna che scriveva. Non ho mai pensato che scrivere sia un demone o una disgrazia.
Penso spesso che sia una cura. E non una cura per scappare dalla realtà, ma per capire la realtà, quella che ci circonda e quella che abbiamo dentro. E non mi capita, leggendo un libro, di cercare di cogliere la struttra della frase o di capire i meccanismi che stanno dietro alla scrittura. Forse, inconsapevolmente, dopo che ho letto. Non durante.
Però mi capita di pensare a come posso scrivere di un’emozione, di qualcosa che provo, che sento, che mi fa felice, che mi fa paura. E mi capita di pensare che per descrivere un’emozione, per renderla vera, bisogna averla vissuta. Sentirla, col significato di Sentire che te, Editor di libri e pensieri, conosci bene.
Ci ripensavo stasera varcando la metà del libro di Giorgio Faletti. Pensavo a quanta differenza di verità ci sia fra il romanzo nel suo insieme e le scene in cui il killer parla o pensa. O in cui Ottobre parla e pensa e soprattutto ricorda.
Solitudine e paura.
Solitudine e paura sono due emozioni strane da raccontare. Strane perché spesso e volentieri vanno insieme. Sia ha paura perché si è soli o si teme di diventarlo. O si è soli perché si ha paura. Di rapporti umani, anche solo di mettersi in gioco.
Ci riesce bene a raccontarle, Faletti. Ci riescee talmente bene che continuo a chiedermi quante volte, in notti lunghe come questa, si sia seduto davanti a un foglio bianco a pensare un modo per dare una forma, una vita, una sostanza ai fantasmi che gli circolano in testa.
Spesso già solo guardarli in faccia per poterli descrivere può essere sufficiente a spaventarti abbastanza.

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