03 gennaio 2005




A certi libri si arriva per strani percorsi.
Un po’ come con i film.
Una dozzina di anni fa mi sono imbattuto in uno strano film. O almeno strano mi è sembrato allora.

La fine è nota è il film d’esordio di Cristina Comencini. Un po’ fuori genere, se si pensa a tutto quello che ha girato dopo. Fuori genere perché è un noir.
In quel film c’è buona parte del meglio del cinema e del teatro italiano. Suso Cecchi D’Amico alla sceneggiatura, per esempio.
Fabrizio Bentivoglio, Valeria Moriconi, Mariangela Melato, Corso Salani, un cameo straordinario di Carlo Cecchi – ma io adoro Cecchi, quindi sono di parte -, Daria Nicolodi, Massimo Wertmuller.
E Valerie Kaprisky nel ruolo semimuto della moglie di Bentivoglio a cui, senza apparente motivo, si presenta un uomo in una sera di primavera per finire il corso della sua vita buttandosi dalla finestra del suo studio.
La fine è nota, appunto.
Compito della storia è tornare all’inizio, raccontare e scoprire quello che è successo a quell’uomo e che lo ha portato a compiere quel volo. Quello che si nasconde dietro a un gesto. Quello che spiega qualcosa che apparentemente non ha spiegazioni.

Quel film, si diceva nei titoli, era tratto da un romanzo americano del 1949. The end is known, citato in inglese. Come se non ne esistesse una traduzione.
In realtà nel 1993 – l’anno del film – una traduzione esisteva. Il libro era stato pubblicato in Italia nel 1952, nei gialli Mondadori, ma con un altro titolo. La morte alla finestra. E Sellerio lo aveva ripubblicato nel ’90.

L’ho cercato per un sacco di tempo quel libro. E non perché non si possa trovare, ma per quegli stranissimi casi per cui ti ricordi di una cosa solo nel momento meno indicato per farla.
Mai in libreria, in questo caso.
E mai mi è capitato di trovarlo su uno scaffale.
Fino a un mese fa. E allora l’ho recuperato. E letto durante le vacanze.
E meritava tutto il pellegrinaggio che quella storia aveva fatto nella mia testa. La sera in cui l’ho finito, ho rivisto in cassetta anche il film. Ed è singolare come una storia scritta nella Manhattan degli anni cinquanta possa essere trasportata all’inizio degli anni novanta in Italia rimanendo assolutamente fedele a sé stessa.

Ma c’è dell’altro. Perché i libri, a volte, fanno strani scherzi.
Geoffrey Holiday Hall, l’autore del romanzo, non si sa chi sia.
Ha scritto solo due romanzi nella sua carriera. Questo, appunto e Qualcuno alla porta (The watcher at the door) che nel ’54 vinse il Grand prix de la Littérature Policière.
Poi più niente.
Svanito nel nulla.
In una nota contenuta nell’edizione Sellerio, Leonardo Sciascia dice di aver cercato di scoprire qualcosa su questo misterioso autore. Ma di non aver trovato niente. Nemmeno negli archivi del suo vecchio editore americano.
Nulla se non la sensazione che si trattasse di uno pseudonimo, un nome con cui qualcuno molto più famoso si era preso una vacanza – anche anagrafica, vista la scelta dello pseudonimo stesso – nella letteratura di genere.
Chiunque fosse, Geoffrey Holiday Hall, è sparito anche lui da una finestra.
Lasciandosi dietro solo il suo romanzo e una fine nota di cui resta misterioso l’inizio.

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