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29 aprile 2003
Ci son dei giorni che mi chiedo se il tennis mi manca.
Non tocco una racchetta da quasi un anno. Era caldo, era tabellone nazionale di serie C. Poi più niente.
E così delle volte mi chiedo se non mi manca. Ho passato 15 anni della mia vita tenendo quella racchetta in mano per tre ore tutti i giorni. Cercando di capire, di pensare, di fare, di non subire e, a volte, soprattutto di stare in piedi. E ho conosciuto molta gente che non mi piace, in mezzo a quelle quattro righe, molta gente che non rivedo e che non mi manca, molti personaggi di cui non invidio la vita, i pensieri, il modo di essere.
Direi praticamente tutti tranne uno. E te che leggi sai che sto parlando di te, cretino. Che se una volta non è che ci sopportassimo molto, beh, forse è perché già allora eravamo due begli idioti. E poi perché non ci sopportavamo? Te te lo ricordi?
Però quel mondo non mi piace, anche se ci sono luci e odori e momenti della giornata che inevitabilmente vanno a finire lì. La luce del mattino presto, in primavera e in estate è quella delle trasferte, il bagagliaio pieno, le corse dall’accordatore, le lotte contro le strade di provincia e il loro profumo di grano o di terra, talvolta l’orrenda puzza del concime. E poi il sudore che ti cola sulla pelle e che ti fa sentire bene. Puzzolente, probabilmente, ma bene. E il doversi difendere sempre da tutti, parlare poco e con poca gente, che ci mettono un secondo a cacciartelo nel culo.
Ma anche i viaggi di notte, tornando a casa stanco, con la luce dell’autostrada morbida e sempre uguale. Con i baristi dei circoli che ti salutano da un anno all’altro e le mamme che portano i bimbi a vederti giocare. Quello, forse, mi manca.
Non mi mancano i soci del mio circolo, di quello mio storico e unico a cui penso di dovere, ma che sicuramente deve molto a me e che mi ha usato finchè ha potuto. Come non mi mancano le invidie da quattro soldi che girano in quei posti e il dover sembrare sempre amico di tutti mentre tutti, ma proprio tutti, anche chi non te lo aspetteresti mai, ti parla dietro appena volti l’angolo.
E nessuno che si accorgesse che mi cagavo addosso. Che il modo di giocare anche presuntuoso e l’atteggiamento in campo, di quelllo che non sta zitto, che fa il suo show, che rompe i coglioni con la sua bandana in testa e la voglia di far sentire quello che vale, beh, quel modo di essere lì era solo lo specchio di una gran paura.
Sì, forse ci vuole coraggio a battere e scendere, forse sì. Ma il punto dura di meno. E si impara a convivere con la paura. Con i dover combattere la pauyra, con il sentirti solo in mezzo al campo e poter anche bestemmiare Dio, ma sempre solo, sempre lì, tu e l’altro e quella fottuta pallina e quel maledetto campo che mi ha insegnato a vivere, ma che mi ha tolto tanto e a cui ho permesso di togliermi tanto.
Ho le racchette nel bagagliaio da un anno. Un giorno mi verrà voglia di tirarle fuori e di scoprire che so ancora usarle.
Ma non sarà mai più lo stesso.
Ho già permesso allo sport e a come lo sport mi ha reso di fare troppi danni nella mia vita.
A me e alle persone che amo.
Adesso basta.
Adesso non glielo permetto più.
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