17 aprile 2003




I nomi giocano strani scherzi.
Nel giorno in cui gli americani trovano Abu Abbas è di un altro Abbas che mi viene voglia di scrivere. Di un’altra storia.
Le storie di guerra, di qualunque guerra, sono strane. Perché nascondono un po’ tutto, un po’ tutto quello che siamo. Nel bene e nel male.
L’Abbas di cui voglio parlare di nome si chiama Alì. Non ha ucciso nessuno, non ha istigato nessun crimine efferato e violento. Perché l’Alì di cui voglio parlare è un bambino di 12 anni. Alì stava dormendo, il 6 aprile. E qualcuno ha bussato all’uscio di casa sua.
Era un missile. Forse uno di quelli un po’ idioti, con un neurone di meno, il gps un po’ fuori fase. Forse programmato da uno distratto. Chi lo sa.
Però era un missile. E ha fatto il suo dovere di missile.
Uccidendo sua madre incinta di cinque mesi, suo padre, suo fratello, gli zii. E strappandogli di netto le braccia. Tutte e due. Una all’altezza della spalla e l’altra a metà del bicipite.
La vita, spesso, è la peggiore troia che uno possa incontrare sulla sua strada. Non lascia spazio per niente. Stai dormendo, cazzo, hai dodici anni. Sei in guerra. Sei nato nel 1991, l’anno della prima guerra del Golfo. E adesso, mentre bombardano, hai 12 anni. E un missile ti cade in casa e riesce a sterminarti la vita, a portarti via tutto quello che è il tuo mondo conosciuto e a toglierti le braccia. Non ti colpisce il viso, il torace, le gambe. No. Per quanto possa essere urtionata la tua pelle, tutto il resto è lì. Il viso è quello di prima. Le gambe sono quelle di prima. Ma qualcosa che ha una mira incomprensibile riesce a fare quello slalom e quello scempio.
Alì è rimasto all’ospedale di Bagdad dal 6 aprile. E non deve essere stato un posto ameno.
Oggi lo hanno operato, a Kuwait City. A guerra finita, a bocce ferme.
Ho sentito prima un giornalista dargli un in bocca al lupo, in chiusrua di servizio.
E ho pensato.
Ho pensato che forse quel missile avrebbe potuto essere stupido fino in fondo e ucciderlo. Ho pensato che forse quella che si dice fortuna in realtà è una sfiga e che aprire gli occhi tutti i giorni, da qui a chissà a quale giorno, potrebbe essere una maledizione peggiore che rimanere ucciso, mentre dormiva, magari nel mezzo di un sogno felice su una vita che non avrà mai.
Questo ho pensato e mi vergogno un po’, perché augurare la morte a un bambino non mi fa stare bene. Pensare che per un bambino la vita potrebbe essere una disgrazia più grande, quella che lo costringe a non dimenticare mai, beh, non è un gran pensiero.
E pensare in nome di cosa è stato fatto tutto questo a Alì e ai tanti come Alì di cui non sappiamo il nome, beh mi fa solo vomitare.
In traduzuone dal bolognese, mia nonna avrebbe detto: che i soldi che avete preso vi vadano tutte in medicine.
A me viene da aggiungere e che le medicine non bastino.

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