21 aprile 2003




Voglio parlare di una cosa. E' un po' lunga, lo so. E chiedo scusa in anticipo.
Sono due giorni che scrivo. Quasi ininterrotti, solo con uno spazio brevissimo per andare ieri sera a vedere the hours. Non voglio parlare del film. Solo dire che è bello e vero. Come assolutamente vera è la frase che ho postato oggi. Vera in assoluto e vera per motivi totalmente miei. E tenera nella sua difficoltà. Perché certe volte è difficile dire le cose.
Sono due giorni che scrivo, mettendo a posto pezzi, situazioni e mi sono accorto che stavo scrivendo di qualcuno.
Stavo scrivendo di mio zio.

Mio zio era il fratello di mia nonna, come mio nonno per me e come un papà per mio padre. Veniva spesso a casa nostra a spezzare la lunghissima noia dei pomeriggi fuori dalla scuola, la lunghissima solitudine di un bambino strano come il sottoscritto. Si piazzava in cucina e parlava di politica con mia nonna e mangiava pane e nutella con me. Mi insegnava a fare braccio di ferro con le sue braccia sottili ma piene di nervi fortissimi che culminavano in una pallina di bicipite dura come il piombo.
Poi, quando sono cresciuto, a cominciato a insegnarmi a giocare a carte. A briscola, a tresette, a scopa e sbarazzino, randellandomi severamente e senza pietà. Come si dice in casa mia se nel mazzo ci sono 40 carte lui ne conosceva 42. Uno di quelli che all’ultima mano di un tresette ti dice cos’hai in mano senza nemmeno l’ombra di un dubbio.
Con mio zio imbottigliavamo il vino, in lunghi pomeriggi pieni di moscerini e di odore di damigiane e di tappi di sughero, con mio padre che allora qualche volta sorrideva ancora. Con mio zio si andava a Comacchio a trovare il retso della famiglia, gente che per me era solo un nome e che non ho mai più rivisto né sentito.
Con mio zio sono andato per la prima volta in sezione e da lui ho imparato a sapere come si combattono le battaglie che sembrano perse. Quelle in cui lotti sapendo già che non vincerai o che potresti perdere.
Era un uomo piccolo, con due grandissimi baffi neri e un sorriso aperto, sincero, che ti tagliava a fette gli occhi e i pensieri. Uno che diceva quello che pensava e che aveva preso botte e galera nella sua vita proprio per quello che pensava. Uno che se lo guardavi sapevi che ti vedeva dentro. Uno dda cui ho sempre sperato di aver preso qualcosa.

Avevo sedici anni quando si è ammalato.
L’esatta metà di quanti ne ho adesso. Fumava tre pacchetti di sigarette al giorno. Quando andava bene. Un giorno ha preso una mezza influenza e gli hanno fatto una lastra. Sulla lastra c’era una macchia bianca. Ma non sulla lastra, ma dentro la lastra, dentro a un polmone.
Non l’hanno mai nemmeno operato.
Per un po’ ha continuato a venirmi a trovare a casa, praticamente tutti i pomeriggi. Tornavo dall’allenamento e lo trovavo lì. Mangiava come un vitello affamato e se lui pensava che fosse perché cominciava a stare bene e la primavera arrivava, io sapevo che erano le medicine che gli alteravano l’appetito e ogni tanto cambiavo discorso per riuscire a non mentirgli.
Poi ha smesso di venire a casa mia e ho cominciato ad andare io a casa sua. Uscivo dall’allenamento, prendevo la bici e andavo a S.Donato a trovarlo. A volte di nascosto dai miei, che non so perché, ma un po’ mi vergognavo. Sembrava sempre lo stesso e finivamo per andare a fare un giro nel giardinetto che c’è sotto casa sua o a prendere un gelato – cazzo se gli piaceva il gelato! – o a farci una briscola come sempre.
Poi non siamo usciti più. Poi ha cominciato a non riuscire più ad alzarsi dalla sedia e poi dal letto. Poi la sua magrezza ha smesso di essere uno specchio di forza e ha cominciato a sembrare un avviso, una specie di spia, di segnale d’allarme.
Un pomeriggio di febbraio ero rimasto solo con lui, in casa sua. Una delle rare volte. Sono andato un attimo in bagno e quando sono uscito l’ho trovato nel piccolo terrazzino che dava su via S.Donato. Aveva preso una sedia, forse con l’ultimo briciolo di forze che gli erano rimaste o forse sommandole tutte, tutte quelle che aveva messo da parte e non sapeva più come usare, e c’era salito sopra. Io sono rimasto lì, fermo fuori dal terrazzino a guardarlo. A guardare quella consapevolezza di un uomo che aveva visto svanire una guerra, ma che stava perdendo la sua di battaglia. E che piuttosto che perderla preferiva chiuderla lì, come fosse un armistizio.
No credo di avergli detto o almeno ricordo così. Lui mi ha guardato, si è asciugato una lacrima, mi ha allungato le mani e si è fatto aiutare a scendere. Mentre lo accompagnavo in salotto ho sentito le sue mani dure e ossute che si stringevano alle mie spalle come fossi un labero, un albero di un metro e ottanta e sedici anni di età. Un albero che era diventato albero anche grazie a lui.

L’ultima settimana di notte stavo là.
Andavo al fermi la mattina, ad allenarmi al pomeriggio e poi da lui. Spesos anche alla notte. Tre o quattro volte alla settimana. Quando senti che il tempo scorre via troppo svelto vorresti fermarlo, vorresti rallentarlo, tirarlo per i capelli, per le braccia, per i piedi e non farlo andare via. Anche se tutti i minuti scorrono semrpe alla stessa velocità, beh, non è così, non ti sembra che sia così. Non ti sembra che vada avanti uguale, non ti sembra che scorra allo stesso modo.
Ogni tanto mi addormentavo sulla sedia.
Poi mi svegliavo, di colpo e restavo in silenzio, ad ascoltare se respirava. E sentivo il tentativo dell’aria di entrare e uscire da quei polmoni, di farsi strada in mezzo a chissà che cosa e chissà perché. Lo vedevo nella penombra della luce che restava sempre accesa, con la bocca aperta a cercare aria, il collo piegato da una parte, le braccia segnate dalla flebo che tutti i giorni i volontari della domiciliazione – che nell’87 erano davvero pochi – venivano a mettere e togliere.
A uno di questi, un giorno, ho chiesto come facesse a fare quel lavoro. E lui mi ha risposto diceendo che lo faceva trovando le forze esattamente dove le trovavo io che andavo lì tutti i giorni a guardarlo andarsene piano piano, in silenzio com’era vissuto.
Forse era vero. Un giorno poi quel medico me lo sono trovato di fronte in un campo da tennis e alla fine mi ha detto quando giochi hai lo stesso coraggio che avevi in quei giorni là. E io stronzo non ho saputo cosa trovare da rispondergli. Nemmeno grazie.

È morto un giorno di primavera, il 21 aprile del 1987. Il giorno della Liberazione di Bologna di cui tante volte mi aveva raccontato. Non c’ero quand’è successo. Stavo giocando una stupida e fottuta partita di tennis. L’unico giorno in cui non ci sono andato. Non me lo perdonerò mai.

Quando l’ho visto ho pensato per la prima volta che un essere umano poteva diventare piccolissimo. Come se quello che ci fa sembrare grandi e forti in realtà sia la Vita e i Pensieri e le Emozioni e il Coraggio e le mani che si muovono e gli occhi che guardno da qualche parte e che sembrano vedere sempre tutto quanto. Svanito questo tutto si affloscia.
Quando l’ho visto, in quella camera in cui lo avevo accompagnato in tante notti dopo averlo portato in bagno, dopo averlgi bagnato le labbra con del ghiaccio o aver tentato di dargli un goccio d’acqua da bere, ho sentito solo una gran rabbia e un gran dolore e un desiderio irrefrenabile di prendermela con qualcuno perchè porcatroia non era giusto. E qualcuno a cui dare una fottuta colpa ci doveva essere.
Ma non c’era. C’era solo il fatto inspiegabile e ingiustificabile che certe cose funzionano così. È solo e semplicemente la vita.

Mi sono reso conto oggi che è lo stesso giorno.
Mi sono reso conto oggi che non era un caso se cercando un pretesto narrativo avevo tirato fuori i miei ricordi per farli diventare un personaggio. E mi sono reso conto oggi che quella frase che ho sentito ieri sera la cinema dopo averla letta nel libro e che ho trascritto qui non solo per me, in realtà andava bene anche per me.
Al tennis non hanno saputo cosa fosse successo e quando lo hanno saputo devono aver pensato che fossi il più assurdo e insensibile stronzo sulla faccia della terra. Al Fermi probabilmente uguale. Io non ho sentimenti, per il mondo, e tutto quello che potresti vedere da fuori è solo un uomo oggi e un ragazzo allora che ride e scherza e gioca e ti prende per il culo e si prende per il culo esattamente come tutti gli altri giorni dell’anno.
Uno che dieceva una cazzata e poi, a casa, quando rimaneva solo, si chiudeva in camera a piangere come tutti quanti. Solo in silenzio.
Per questo sono Mrs Dalloway. E forse per questo mi sono commosso profondamente vedendo i dolori terribili e inavvicinabili di Virginia Woolf attraverso gli occhi di Nicole Kidman.
Forse per questo ho ammirato e ammiro certe compostezze nel dolore e forse per questo capisco, vedo e intuisco cosa si nasconde dietro certi sguardi, sguardi fondi e lunghi, pieni di silenzio e di richiesta di aiuto. Magari interpretata come indifferenza.

Non ho mai trovato qualcuno che sapesse interpretare nel modo giusto la mi di indifferenza. Mai nessuno che abbia capito che dietro al mio orgoglio e al far sembrare tutto normale stava tutto il dolore che può stare in una lacrima versata in pubblico. In una richiesta di aiuto. Io non so chiedere aiuto, perché non me lo hanno insegnato. Perché non sono capace.

Non c’è stato nessuno che l’ha capito.
Tranne tu. Non so come hai fatto, ma è così.

Quando lo portai a letto la sera dell’episodio della seggiola, mi guardò negli occhi e mi disse semplicemente grazie.
Anche allora non gli risposi. Ma gli diedi una carezza.
Voleva semplicemente dire che mi avrebbe avuto a fianco, sempre e comunque, ad asciugargli la fronte quando sudava freddo e caldo di notte, a raccontargli le mie giornate nel silenzio delle sue parole, a guardarlo lì, sottile come un pensiero mentre mi lasciava se stesso da ricordare per sempre.
Anche adesso.

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